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Lo stadio degli incubi

Lo stadio degli incubiFigurine sulla carriera di Ryan Giggs

Intervista Un incontro con lo scrittore inglese Rodge Glass che presenta il suo romanzo «Voglio la testa di Ryan Giggs», storia di una promessa del Manchester United che si trasforma in emarginato

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 4 aprile 2014

«Papà dice che questo posto non si chiama semplicemente Old Trafford, è il Teatro dei sogni. Quando arrivi allo stadio resti senza parole. Tutto sembra davvero un sogno. Il rumore. L’odore. Le imprecazioni e le grida. Salite i gradini, passate attraverso la massa di tifosi, uscite all’aperto e guardate giù, la grande distesa verde. Poi ti avvicini, a passi incerti, a quei posti dove la tua famiglia si siede da quella che sembra la notte dei tempi. I sedili sono di plastica rossa e sono freddi sotto il culo, ma appartengono alla storia».

Rodge Glass ha solo 36 anni, ma è cresciuto in una casa dove l’abbonamento allo stadio del Manchester United c’è sempre stato nell’ultimo mezzo secolo. In Voglio la testa di Ryan Giggs, appena pubblicato da 66thand2nd (pp. 328, euro 17) ha messo perciò una parte della sua memoria più intima. Emozioni, sogni e aspettative che un figlio della working class della ex città industriale non può che nutrire nei confronti del calcio e, in particolare, dei Red Devils. Certo, a Manchester non c’è solo lo United, ma la linea di confine su questo tema è talmente forte che, come il protagonista del romanzo, Mikey, anche Glass non dedica che qualche battuta agli Oasis, la famosa band dei fratelli Gallagher, «colpevoli» di essere tifosi dell’altra squadra locale, quella del City, i «Blu» che si contrappongono ai «Rossi».

L’identità della città è del resto racchiusa in questo. Football e musica, dalle tribune dell’Old Trafford alle sale d’incisione della Factory, dove i Joy Division trovarono nello spazio di un paio d’anni la via d’uscita al «no future» del punk. Musica e football, allo stesso modo, per l’annata d’oro del Manchester United, quella del 1992 che avrebbe visto il debutto dei vari Beckham, Scholes, dei fratelli Neville e, soprattutto, di Ryan Giggs, il centrocampista con cui si identifica il giovane Mikey. Quella stessa squadra che sotto la guida di Sir Alex Ferguson avrebbe poi finito per vincere tutto, in patria come all’estero.

Il sogno di Mikey, nutrito dell’ossessione del padre per tutto ciò che aveva a che fare con l’United, coltivato nei pomeriggi passati con lui all’Old Trafford, andrà invece in frantumi in poco più di due minuti: i centotrentatré secondi nei quali il ragazzino prodigio delle giovanili, chiamato da Ferguson ad indossare la maglia della prima squadra, si avventerà su un difensore avversario spaccandogli una gamba e rimediando un’identica frattura, «il peggior debutto della storia della Premier League, scriveranno i giornali». Da quel momento, quello di Mikey diventa il tentativo disperato di non lasciare che la propria vita vada in pezzi. Escluso dall’United finirà col giocare in piccole squadre di provincia, in cittadine sempre più insignificanti e tristi. Solo un annuncio della deriva personale che seguirà, segnata dall’alcool, dalla depressione e dalla follia.

Mikey che sognava ad occhi aperti un destino da campione, si sveglierà inebetito in una vita da marginale, mentre i nuovi affaristi del calcio metteranno le mani sull’United e sui miti appresi dal padre, a sua volta in fuga per i debiti accumulati con le scommesse. L’amore per il suo idolo Ryan Giggs, di cui avrebbe voluto seguire le orme, si trasformerà in ossessione e in odio. Giggs è il volto di successo in cui Mikey, in un crescendo drammatico che ricorda la discesa verso il delirio del Diario di Edith di Patricia Highsmith e il film The Fan, di Tony Scott, in cui Robert De Niro perseguita un giocatore di baseball di San Francisco, si specchia di continuo, misurando la tragica ampiezza del proprio fallimento.

È riduttivo definire corale questo romanzo, nelle sue pagine ci sono la storia di un calciatore mancato, di una famiglia, di una città, in qualche modo del football stesso. Cosa voleva raccontare?

Penso che già in ogni storia familiare si possano trovare tanti elementi diversi, una sorta di spaccato del mondo. Tuttavia, il commento che in Gran Bretagna è stato fatto più spesso circa questo romanzo è che racconta soprattutto il «calcio moderno», vale a dire il calcio degli affari miliardari e dello star system. Ho cercato di descrivere il cambiamento e le conseguenze che ha avuto sulle persone, in particolare sui tifosi che vogliono continuare a vedere nello stesso modo ciò che amano più di ogni altra cosa. Con l’avvento del nuovo calcio ho raccontato anche le trasformazioni conosciute da Manchester. Fin dall’inizio degli anni Novanta, questi due elementi hanno seguito la stessa evoluzione, intrecciandosi in modo inestricabile.

Mikey crede che gli abbiano rubato il futuro, anche se è stato il suo fallaccio a stroncargli la carriera. Cerca punti di riferimento che non trova più. È la metafora di una città che è cambiata troppo in fretta?

Credo che a tutti sia successo almeno una volta di gridare «la mia vita è andata male perché gli altri me l’hanno rovinata». Mikey continua a vedere le cose in questo modo perché così cerca di nascondere a se stesso come agli altri la sua incapacità ad assumersi delle responsabilità. Da piccolo si beveva tutte le balle del padre sul calcio, ma una volta diventato adulto dovrebbe essere in grado di tagliare il cordone ombelicale con un uomo che l’ha deluso e ingannato. E invece non lo fa. IIl suo atteggiamento assomiglia a quello di molti degli abitanti di Manchester, su tutti i tifosi, che sembrano non voler abbandonare i sogni e le promesse dell’infanzia per misurarsi con la realtà di un mondo che è profondamente cambiato.

Cosa è diventato l’Old Trafford se non è più il Teatro dei sogni descritto a Mikey bambino da suo padre?

Si è trasformato nel Teatro degli incubi. È diventato una sorta di inconscio collettivo della città. Mikey continua a tornarci con i propri pensieri, con i sogni, le paure. Cerca lì, tra quei sedili di plastica attaccati al cemento, un pezzo della sua identità che teme vada perduta. Come lui, anche il resto dei tifosi dell’United fingono di non vedere che tutto è cambiato, che lo sponsor della squadra è una compagnia aerea malese, che i proprietari della società sono americani, che quasi nessuno di loro guadagnerà in un’intera vita quello che Wyane Rooney (popolare attaccante dei Rossi) intasca in una settimana. Lo fanno per difendersi, per continuare a considerare il Manchester United come qualcosa di «proprio». Per Mikey è un modo per continuare, finché c’è, a parlare con suo padre, per avere una vita sociale e degli affetti. Del resto, anche a

casa mia era così: se volevo sapere come stavano mio padre o i miei fratelli, l’unico modo era andare allo stadio con loro.

Il sogno del calcio della working class si infrange quando arrivano quelli che nel libro sono descritti come i «piccoli uomini in grigio». Nell’era del football-business non c’è più speranza?

In realtà non è proprio così, c’è anche chi ha scelto di ribellarsi. Tra coloro che hanno continuato ad andare allo stadio, in molti hanno scelto di utilizzare i colori originali, il verde e l’oro, che la squadra aveva quando è stata fondata nel 1878. È nato un movimento di supporter che realizza magliette e sciarpe con questi colori per protestare contro il merchandising ufficiale della società. Altri hanno deciso di abbandonare lo stadio e hanno creato il Football Club United, una piccola società gestita direttamente dai tifosi, che gioca per il momento nelle categorie più basse, ma sta cercando di rinnovare il rapporto tra la città e il calcio. L’idea è quella di tornare ad una squadra che appartenga alla comunità e non agli azionisti o alla Borsa.

«Colonna sonora» del romanzo sono gruppi come Smiths, Stone Roses o Happy Mondays che hanno rappresentato negli anni la «scuola di Manchester». Mikey, e forse lei, prediligete però i Joy Division, perché?

I Joy Division hanno pubblicato solo due album e all’epoca erano una band underground, conosciuta da pochi. Con il passare degli anni la loro fama è però cresciuta enormemente perché si è capito che avevano incarnato una fase decisiva di trasformazione della società britannica. Nel passaggio dai Joy Division ai New Order, il gruppo formato dai membri della band dopo il suicidio di Ian Curtis, il sound cupo e industriale della fine degli anni Ottanta è evoluto verso la dance elettronica del decennio successivo. Quella musica ha accompagnato la fine dell’era industriale che aveva fatto le fortune di Manchester e l’inizio di una nuova fase in cui la città, e l’intero paese, hanno dovuto inventarsi una nuova identità. Da noi ci si è riusciti proprio così, grazie al calcio e alla musica.

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