Non molto tempo fa ho cominciato finalmente a leggere un libro che conservavo da molti anni. Sapevo che era un libro molto bello e importante, e ne ho avuto piena conferma. È proprio una gran gioia quando si scopre un capolavoro. Parlo di Mimesis, di Erich Auerbach. Confesso che sono partito dalla fine, dalla descrizione del modo nuovo di scrivere (e di pensare) inventato da Virginia Woolf nel suo Al faro, quando un mondo di sentimenti, di cose e di persone, il mondo, si apre mentre la protagonista sta prendendo le misure di un calzerotto su un bambino.

Auerbach, come si sa, era partito da Omero, componendo una antologia e una riflessione critica su quello che ha definito il «realismo nella letteratura occidentale».

Potrebbe sembrare un modo superato di ragionare, nel tempo in cui si condanna ferocemente, e con molte ragioni, la presunzione egocentrica della cultura occidentale. Ma è successo contemporaneamente che la figura, le idee e ricerche, e il metodo di Auerbach siano tornati di moda. Nottetempo ha appena pubblicato alcuni suoi saggi sotto il titolo “Letteratura mondiale e metodo”. Già negli anni Cinquanta aveva capito che la globalizzazione avrebbe cambiato tutto: era cultore di uno storicismo più duttile, mutuato dalla genialità di Giambattista Vico e filtrato da una razionale lettura del romanticismo. Vi si legge tra l’altro la recensione di un altro grande libro uscito nel dopoguerra: “Letteratura europea e Medio Evo latino” di Ernst Robert Curtius. Anche questo testo è stato da poco ripubblicato da Quodlibet. Ne ha parlato con la necessaria competenza domenica su questo giornale (Alias) Fabio Romanini, valorizzandone le invenzioni pre-strutturaliste.

L’ebreo Auerbach scrisse il suo capolavoro in esilio in Turchia, durante la guerra. Curtius nella Germania nazista. Sono due libri che nascono dalla passione scientifica, ma anche dal bisogno di reagire all’imbarbarimento orrendo che era scaturito dalla civilissima Europa e dalla Germania – e ancora prima dalla nostra cara Italia – in particolare.

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Curtius nel cruciale 1932 aveva pubblicato alcuni brevi saggi sotto il titolo “Lo spirito tedesco in pericolo”. Anche questo testo è stato tradotto in Italia pochi anni fa, nel 2018, dall’editore I libri di EMIL, a cura di Annamaria Bercini.

L’autore critica gli estremismi politici di sinistra – i comunisti che guardano alla rivoluzione bolscevica – e ancor più di destra, il nazionalsocialismo di Hitler. E da umanista liberale e conservatore pensa – si illude? – che un rimedio al disastro politico e mentale del suo paese ci possa essere nel recupero della tradizione umanistica europea facendone il centro della Bildung, questa parola tedesca che non riusciamo a tradurre adeguatamente con formazione, istruzione, scuola, pedagogia.

Curtius fu criticato aspramente da Croce e da alcuni marxisti. Nel Pci ho imparato a diffidare dello storicismo: come ha ripetuto Aldo Tortorella la formazione storicistica prevalente nel gruppo dirigente comunista ha avuto l’enorme merito di preservare il partito dai dogmatismi marx-leninisti sovietici. Ma ha prodotto anche la tendenza a un realismo che finisce per accettare la cosiddetta realtà come si presenta, perdendo la spinta a cambiarla.

Il nuovo interesse per questi vecchi maestri di uno storicismo applicato con grande genio e metodo filologico forse è sintomo di quanto soffriamo della mancanza di forti categorie di analisi per capire quello che ci succede. Mi sono chiesto se – ora che si straparla tanto di nazione – esista qualcosa che possa essere definito «spirito italiano». Non credo. Ma sono certo che se esistesse sarebbe in grave pericolo.