Lo spirito della foresta
Intervista Costanzo Allione parla del suo libro dalla Beat Generation agli sciamani dell’Amazzonia
Intervista Costanzo Allione parla del suo libro dalla Beat Generation agli sciamani dell’Amazzonia
Dal lockdown virtuale nella foresta amazzonica a quello reale tra gli ulivi della sua casa nelle Puglie. All’inizio di maggio Costanzo Allione è tornato dal Perù, e via whatsapp ci racconta del suo viaggio e del suo libro appena pubblicato, Sciamanesimo peruviano (Libreria Editrice Psiche, 20 euro), nel quale don Francisco Montes racconta la sua vita con l’Ayahuasca. Con la sua compagna Anna Saudin sono oltre 40 anni che Costanzo Allione esplora e registra come cineasta le forme di sciamanesimo e spiritualità presenti nelle diverse parti del mondo. Insieme hanno fondato negli anni ’90 l’associazione «Where the Eagles Fly» che ha organizzato convegni internazionali come «Central Asian Shamanism» (1996), «La guarigione nel Mondo sciamanico» ’98 con l’università di Verona, «La guarigione della madre Terra» 2001-2005 nel Parco nazionale del Gran Paradiso. Dal 2017 Allione è presidente onorario del Festival internazionale del Cinema Sciamanico di Sarlat (Francia). Nel 1978 ha realizzato al Naropa Institute di Boulder in Colorado il documentario sulla Beat Generation Fried Shoes Cooked Diamonds.
Ben tornato in Italia…
Sono arrivato da Lima sabato mattina, il 2 maggio, l’aereo era pieno, io sono stato fortunato ma erano pochi quelli che avevano un posto vuoto accanto. C’erano parecchi italiani ma anche molti peruviani che tornavano in Italia, gente che lavora e altri stranieri. All’aereoporto di Fiumicino è venuta a prendermi mia moglie e in macchina e siamo tornati a casa e ci siamo messi in quarantena. Non ho attorno la massa della foresta amazzonica che avevo a Iquitos, ma abitiamo in campagna e mi sento superfortunato, possiamo camminare, giornate stupende, il sole.
Quanto sei rimasto in Perù?
Due mesi. Nelle prime due settimane abbiamo visitato il lago Titicaca, a 4000 metri, un posto di una bellezza incredibile, con l’isola del Sole e l’isola della Luna.
A Iquitos c’era il lockdown?
Sì ed era abbastanza rispettato anche perché c’erano parecchi controlli, c’era l’esercito. A Iquitos c’è una forte presenza militare legata ai conflitti centenari sui confini con l’Ecuador. Iquitos è una cittadina abbastanza grande, 500 mila abitanti, ha una sola strada di 90 km che va al porto di Nauta, per il resto è raggiungibile solo per via aerea o fluviale. Io stavo nella foresta a Sachamama, il centro dello sciamano don Francisco Montes, e là niente mascherine né lockdown. C’era la famiglia di Francisco, la moglie e a turno arrivavano le figlie, ne ha 6, poi c’era il cuoco. Martedì e giovedì cerimonie con ayahuasca, gli altri giorni erano dedicati all’assunzione delle piante che Francisco ti fa dietare. Si comincia con l’Ajo Sacha, un aglio selvatico della foresta, per purificarti, e poi ognuno, a seconda di cosa viene fuori nella cerimonia, continua a dietare altre piante, Cumaceiba, Chuchuhuasi e nelle ultime 3 settimane Huacapurana, una pianta che dà molta energia.
Quante persone partecipavano alle cerimonie?
Ultimamente pochissimi, con il lockdown non arrivava nessuno. A Iquitos sono rimasto una settimana, con Francisco siamo andati al canale Amazonia Tv per presentare il libro, e arrivati a Sachamama eravamo in 7 o 8, poi se ne sono andati 4 francesi e uno svizzero e siamo rimasti in 4.
Come hai intervistato Francisco?
Negli anni sono passato dalla telecamera al cellulare. Negli ultimi dieci anni i film li ho fatti tutti con l’iPhone, che ha anche un ottimo registratore. Tutto è nato a Natale 2018. Durante una cerimonia l’ayahuasca mi ha detto «devi fare un libro su Francisco, sulla sua vita». La mattina quando vedo Francisco gli dico «ma lo sai che la pianta mi ha detto che devo fare un libro con te sulla tua vita?». E lui «È vero lo ha detto anche a me stanotte che avrei dovuto parlarti». Ci siamo visti per il numero dei capitoli, 17. Ci si incontrava al mattino per un’ora e mezza, quando poteva, a quel tempo il centro era pieno, e Francisco partiva a raccontare. È una persona incredibile, stupenda. Ha 65 anni, è stato una volta in Italia, penso un 15 anni fa, lo invitò un professore dell’università di Napoli a parlare ai suoi allievi.
È uno Shipibo?
No è Capanahua, un’altra etnia, sua moglie è per metà shipibo. Guillermo Arevalo è shipibo. Gli shipibo sono una delle etnie più importanti in Peru.
In che lingua canta gli icaros durante le cerimonie?
In varie lingue, anche in quechua antico. Riceve l’icaro dallo spirito della pianta e da quello dipende come lo canta, in capanahua, in shipibo, a volte in spagnolo.
Accanto alle tradizioni locali c’è il sincretismo con la religione cristiana…
È come nella santeria, per ragioni di sopravvivenza hanno per così dire sovrapposto alle loro divinità, i santi e i simboli della chiesa cattolica. I gesuiti soprattutto ai tempi della conquista qui hanno fatto cose da paura. Ora nell’Amazzonia brasiliana c’è un flusso continuo di missionari dagli Stati Uniti, dicono per convertire ma è per prendergli le terre.
Quando hai preso ayahuasca per la prima volta?
Con mia moglie in Austria una quindicina di anni fa. Una amica austriaca interessata allo sciamanesimo siberiano, che noi già seguivamo da tempo, ci ha fatto sapere che passava il curandero Guillermo Arevalo, e con lui abbiamo fatto la nostra prima cerimonia. Non è stato nulla di eccezionale. Ritengo che bisogna farne diverse di cerimonie…ora nel mondo occidentale incontri sciamani che vengono per un weekend mordi e fuggi… è un po’ riduttivo rispetto alla pianta e a tutto quello che la pianta può condividere con te. Poi magari a uno basta una cerimonia e capisce l’universo, io forse sono un po’ lento e ho bisogno di tempi più lunghi.
Quante sono state le cerimonie che hai fatto?
Questa volta 13, con quelle degli ultimi due anni direi una cinquantina.
Hai parlato con Francisco del covid19?
Sì ne abbiamo parlato. Fa un discorso che mi trova completamente d’accordo, è un fatto di sistema immunitario, se il tuo sistema immunitario è alto il virus non ti fa nulla, è quanto sostengono anche medicine non allopatiche come l’omeopatia. Il problema è che il nostro sistema immunitario è basso perché mangiamo schifezze. Non immettiamo più nel nostro corpo un cibo naturale ma un cibo modificato, magari da Monsanto & co. Ora ci sono quelli intolleranti al glutine, quando eravamo giovani non si conosceva il glutine, questa intolleranza non c’era perché mangiavamo dei grani naturali. Due anni fa quando ero in Perù c’erano dei ricercatori di Harvard che dicevano «sicuramente l’alcaloide dell’ayahuasca potrebbe essere d’aiuto contro l’halzheimer» – eravamo in un ristorante, ero felice di questa possibilità – ma poi aggiungevano «ma l’industria farmaceutica non ha alcun interesse a privarsi di questo mercato in cui tutti vivono di medicine». A Tarapoto c’è un medico francese, Jacques Mabit, che nel 1992 ha fondato il centro Takiwasi dove con l’ayahusaca e altre piante si curano tossicodipendenze, comprese l’alcolismo e il tabagismo. E lui dice le stesse cose. Anche se è ormai chiaro e riconosciuto che queste cure funzionano, quelli che producono metadone & company non hanno nessun interesse a chiudere le loro miniere d’oro.
Hai conosciuto Mabit?
Sì sono passato per Takiwasi, è un centro bellissimo e anche i prodotti che fanno… a Iquitos trovi tutti i prodotti che vuoi legati alle piante amazzoniche, ma lui è un gradino più su, ha i suoi laboratori, è tutto più controllato e lui è un medico. A Iquitos al famoso mercato di Belem si trova di tutto ma certo non vado là a comprarmi un bottiglione di ayahuasca. Nel vicolo Pasaje Paquito vendono tutti prodotti di derivazione naturale, pomate, lozioni, tinture, piante medicinali.
Come è nato questo tuo interesse per lo sciamanesimo?
Lo starting point può essere il 1979, quando abbiamo fatto Fried Shoes Cooked Diamond con Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso, Timothy Leary… Ginsberg mi portò a Taos a incontrare sciamani degli indiani americani. Sono gli anni di Carlos Castaneda e del Messico di Don Juan, La Montagna sacra di Jodorowsky, gli acidi che giravano allora, ottimi.
Nel 1986 andai a Idar-Oberstein, una cittadina tedesca in cui tutto ha a che fare con le pietre semipreziose. Incontrai una signora che organizzò il primo convegno europeo sui cristalli e incontrai Brant Secunda, sciamano huichol, «cugini» degli yaqui, gli indios del Messico che usano il peyote. Brant Secunda è un bianco, nato nel New Jersey, e quando legge Castaneda va giù a Ixtlan e diventa sciamano dopo un apprendistato con lo huichol Don José Matsuwa. In Germania siamo diventati più o meno amici e insieme abbiamo fatto una sweat lodge, una capanna sudatoria. Nell’88 vengo chiamato da Maria Rosaria Omaggio, una amica, che faceva su Raidue Incredibile, un programma in cui si parlava di questi mondi. A me viene affidata la parte americana e allora con Alberto Grifi siamo tornati negli Stati Uniti e abbiamo ripreso Brant Secunda sul Monte Shasta. Poi sono entrato in contatto con Sun Bear, sciamano che per primo ha portato tra i bianchi la conoscenza degli indiani nordamericani creando il Medicine Wheel Gatherings. Sono entrato per la via principale, invitato a questi Medicine Wheel ho conosciuto altri indiani, grosse figure che mi hanno portato a fare grandi esperienze.
Che facevi nel 1968?
Ero a Torino, occupavo Palazzo Campana, ricordo Guido Viale…si dormiva all’interno di Palazzo Campana, e per chi come me veniva da un piccolo centro, io venivo da Santhià, fu qualcosa di completamente nuovo.
Ne hai presi molti di acidi?
Sì, all’epoca sono stato per tre mesi in giro per l’Europa. Su questo voglio fare un inciso per me importante. Mio papà Paolo Allione nel ’43, quando c’è la disfatta dell’esercito, a 20 anni parte per le montagne, Brigata Garibaldi, ferito, decorato, un eroe, però poi era comunque una persona tra virgolette borghese. Ricordo sempre con affetto che quando gli dissi nel ’69, avevo 21 anni «voglio andare in giro per l’Europa in autostop», lui senza star lì a menarmela come tanti altri genitori anche più aperti facevano, disse solo «bene». Mi accompagnò a Torino a Porta Palazzo a comprare uno zaino, che allora erano fondamentalmente quelli militari, poi una mattina mi accompagna da Santhià fino a Milano in autostrada, mi ammolla al casello e dopo 5 minuti un camion mi prende e mi porta in Svizzera. Non sono più tornato per tre mesi. Ad Amsterdam vissi per 20 giorni nel Vondelpark, il parco degli hippy dove era tutto gratuito. Fu una grossa esperienza psichedelica.
Che differenza tra quelle esperienze e le altre fatte in seguito con gli sciamani?
È diverso, intanto l’Lsd dura molto di più, 8-10 ore. In quel periodo avevamo acidi eccezionali, non questi che poi hanno cominciato a girare, erano fondamentali per aprire la mente, rendersi conto che c’è qualcosa di più, io non ho mai avuto la paranoia, entrare in mondi paralleli mi rendeva più che felice, era un viaggio libero, legato magari alla musica che si metteva, all’altro che faceva l’acido con te, alla donna che avevi accanto, al gruppo, perché si facevano anche acidi di gruppo…che facciamo stasera? Non andiamo al cinema e ci facciamo un acido. Vivevamo così questa esperienza. Con lo sciamano è tutto un po’ più regolamentato. Lo sciamano quando canta è lui che dirige l’orchestra perché è vero che l’ayahuasca ti porta su, ma poi è lui con gli icaro che dirige l’orchestra a seconda di come vede che tu reagisci.
Mentre tu vai a leggere dentro di te e porti in superficie quello che hai in profondità, lo sciamano contemporaneamente è in grado di capire dove sei, cosa stai portando su e quanto peso puoi portare, e in base a ciò regola l’energia. Lui controlla l’energia. Francisco ha 65 anni. Sua madre quando era incinta fino al quarto mese ha bevuto ayahuasca, quindi Francisco praticamente l’ayahuasca ce l’ha dentro da quando era un embrione. Ha una conoscenza delle piante che è fondamentale, ne ha dietate non so quante, 150, perché poi sono queste piante che ti aiutano. L’ayahuasca ti permette di fare come una radiografia al tuo corpo e alla tua mente, vedere quali problemi hai e per aiutarti a risolverli indica allo sciamano quali piante utilizzare.
Noi abbiamo portato il nostro olio d’oliva a Francisco, voleva dietarlo, e mi ha detto: «dovresti al mattino prenderne un cucchiaino». Qui in Puglia ho scoperto che sta nella tradizione popolare un cucchiaino di olio al mattino.
Durante le riprese di «Fried Shoes Cooked Diamonds» hai fatto amicizia con qualcuno di loro?
Fernanda Pivano la conoscevo già a Roma, io abitavo in via del Mattonato lei lì accanto in via Garibaldi, andavamo a mangiare all’Antica Pesa. Nel ’78 ero tornato dal festival di Cannes e avevo visto un documentario sulla Beat Generation. Era qualche anno che non si parlava più dei beat e pensai che sarebbe stata una buona idea fare un lavoro su di loro. Quando vedo Fernanda a pranzo gli chiedo «dove stanno, che fanno i beat?». «Guarda – mi dice lei – so che questa estate saranno al Naropa Institute a Boulder in Colorado. Vieni a casa e proviamo a chiamare Ginsberg». Andai a casa sua, erano le tre di pomeriggio, quindi le 21 a New York, telefoniamo e risponde Allen «Sì possiamo farlo, possiamo farlo».
Dopo le riprese tornai per le lavorazioni a Cinecittà ma subito mi resi conto che non avrei potuto fare il montaggio in Italia. Sentivo il bisogno di avere ancora un contatto con loro. Allen stava a Boulder, io nel frattempo mi ero fidanzato con la sua maestra di meditazione e quindi tornai a Boulder. Ho vissuto tutto l’inverno a fare il montaggio con Ginsberg, Peter Orlovsky e William Burroughs. Allen è una grande anima, Burroughs un po’ straight, anche se dare dello straight a Burroughs è un po’ dura.
Prima di questo film conoscevi Alberto Grifi?
No Alberto Grifi me lo ha indicato Silvano Agosti, regista, scrittore, cineasta che a Roma dirige il cinema Azzurro Scipioni. Silvano mi disse «attento a non portarti qualcuno che poi magari rompe le scatole, con un ego eccessivo, no, portati Alberto Grifi che in ogni caso sei sicuro di portare a casa il lavoro». La mia intesa con Alberto è stata immediata e lui mi suggerì «portiamo come tecnico del suono uno che lavora sempre con me, Carlo Duca». Carletto è un’altra figura mitica. Fu un bel lavoro, anche se all’inizio Alberto era un po’, non dico contrario, veniva volentieri, incontrare la Beat Generation, quando ti ricapita, però aveva un po’ questa cosa da compagno contro l’America… quando tornò aveva tutta un’altra visione.
Vuoi aggiungere qualcosa sul libro…
La grande anima dietro a questo libro è mia moglie Anna Saudin, anche lei è una autrice, siamo stati i primi a filmare dopo la perestroika gli sciamani siberiani e siamo un po’ l’anima di questo mondo per farlo conoscere in Italia. Io avevo registrato Francisco, volevo la sua voce, perché come racconta è veramente convincente.
Pensavo a un e-book in spagnolo con sottotitoli in italiano, ma la libreria Psiche ha voluto assolutamente un libro e a quel punto mia moglie ci ha messo le mani e lo ha reso leggibile, cosa che io avrei probabilmente avuto più difficoltà a fare.
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