Cultura

Lo spettro vagante dell’occidentalismo

Lo spettro vagante dell’occidentalismoPerformance alla Gallery of New South Wales di Sydney, Australia

Linee di frontiera La figura del colono è dura a morire in Europa. Continua a pervadere anche la produzione del sapere nelle istituzioni culturali europee e occidentali. Dopo, gli «studi subalterni», prova a scardinarla un altro filone di pensiero critico. Viene dall’America Latina e invita a «decolonizzare la cultura»

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 5 ottobre 2013

Nella prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon, Jean-Paul Sartre ammoniva che il processo di decolonizzazione non doveva riguardare, e non avrebbe riguardato, soltanto le colonie. La sua ingiunzione, espressa in un linguaggio giustamente virulento e apocalittico, data la posta in gioco, divenne famosa e prese la forma di una interpellazione tanto drammatica quanto epocale. Nel bel mezzo della guerra di liberazione algerina, e nel tipico stile dell’intellettuale engagè, Sartre puntava diritto alla (falsa) coscienza degli europei: «anche noi, gente d’Europa ci si decolonizza. Ciò vuol dire che si estirpa, con un’operazione sanguinosa, il colono che è in ciascuno di noi».

Se guardiamo al razzismo dilagante oggi nell’Europa della crisi, alle politiche migratorie sempre più criminali promosse tanto dalla Ue quanto dai singoli stati-nazione, così come all’eurocentrismo che continuano a diffondere la cultura e i saperi prodotti nelle scuole e nelle università, la decolonizzazione dell’Europa invocata da Sartre resta ancora un miraggio. L’uscita di scena dell’Europa economica e politica dal centro del mondo non si è accompagnata a quello che il teorico postcoloniale Dipesh Chakrabarty ha chiamato la sua «provincializzazione». In Europa il colono è duro a morire. Con una metafora cinematografica, si può dire che esso rappresenta una delle traduzioni dell’Alien di Ridley Scott; un mostro informe, incrostato nelle stesse viscere del corpo che abita e sempre pronto ad uscirne fuori in modo aggressivo, letale e resistente.

Narrazioni eurocentriche

È proprio di questo mostro che continua ad abitare le rovine dell’Europa che ci parla il libro di Leonardo Franceschini Decolonizzare la cultura. Razza, sapere, e potere: genealogie e resistenze (ombre corte). Il testo prende atto della necessità di portare a compimento una decolonizzazione dell’Europa nell’ambito del sapere e della cultura: un obiettivo che trova un ampio consenso discorsivo – specie nell’intellighentsia della sinistra europea – ma che stenta a prendere corpo come reale pratica teorica, nemmeno a dirsi politica. Buona parte della sinistra europea non finisce di rendersi conto che decolonizzare l’Europa significa non soltanto fare i conti con il colonialismo, l’eurocentrismo e il paternalismo dei suoi sistemi di pensiero più conservatori, liberal-borghesi e reazionari, ma soprattutto con quelli del marxismo e del femminismo europei.

Come ben mette in evidenza l’autore del testo, decolonizzare la cultura significa decolonizzare la teoria, i dicorsi, i concetti e le categorie attraverso cui pensiamo il reale. Il libro parte da domande piuttosto semplici: quali categorie abbiamo per parlare degli «altri»? Che tipo di pensiero le ha prodotte? Dove e come sono sorte? Siamo sicuri che gli altri si riconoscerebbero in tali categorie o narrazioni? Si tratta ovviamente di un tema piuttosto frequentato nell’ambito degli studi postcoloniali, prima di tutto da parte dei Subaltern Studies indiani, in quello che forse resta il tentativo più serio e sistematico a livello teorico.

Ricordiamo che l’intellettuale indiano Ranajit Guha e gli altri esponenti dei Subaltern Studies, in una lettura atipica del pensiero gramsciano, e anche discutibile da un punto di vista strettamente filologico, scelsero la parola subalterno perchè erano insoddisfatti di altri termini – come «indiani», «indigeni» o «proletari» – che venivano mobilitati per parlare dei soggetti delle rivolte contadine anticoloniali. Agli occhi di Guha, questi termini non facevano che immettere tali soggetti in una grande narrazione – storicistica e eurocentrica – che non li apparteneva.

La storiografia coloniale, nazionalista e marxista – incentrate sulla costruzione dello Stato indiano in quanto traduzione locale della «Storia Universale» – non consentivano di pensare l’agire dei subalterni indiani nella sua vera dimensione: quella dell’autonomia politica. Dipesh Chakrabarty elaborò ulteriormente il progetto ridefinendolo attraverso un’espressione che è rimasta celebre: «provincializzare l’Europa». È questo il principale compito dello storico subalterno (postcoloniale), il che non significa affatto aprire a una sorta di ingenuo «relativismo culturale».

La modernità coloniale

Il dibattito aperto dai Subaltern Studies in India va tuttora avanti, come attesta la vivace polemica sull’argomento svoltasi all’ultimo convegno di Historical Materialism a New York tra Vivek Chibber (in difesa di un marxismo-leninismo di stampo tradizionale) e Partha Chatterjee (il video della polemica è disponibile su YouTube).

Tuttavia, Franceschini propone il suo percorso non tanto a partire dagli studi subalterni/postcoloniali quanto dal lavoro di un altro gruppo di studiosi, impegnati in obiettivi politico-epistemologici simili, ma appartenenti a diverse tradizioni intellettuali, attivi in un’altra parte del globo e ancora poco noti in Italia: quello della prospettiva «decoloniale».
La categoria di «decoloniale» è associata a nomi come quelli di Anibal Quijano, Walter Mignolo, Ramon Grossfoguel, Nelson Maldonado Torres, Arturo Escobar e soprattutto Enrique Dussel. Come narrato nel testo, ll movimento decoloniale nacque da un convegno svoltosi all’Università di Caracas nel 1998 a cui parteciparono molti degli intellettuali prima citati e che mise a capo all’oramai noto progetto multidisciplinare di ricerca «modernidad/colonialidad».

Franceschini costruisce la sua prospettiva non solo a partire da alcune delle principali categorie analitiche dei «decoloniali», ma adottando anche lo stesso schema genealogico della filosofia de la liberaciòn di Dussel.

La prima parte del testo è dedicata alla messa in luce della colonialità (termine di Quijano) di quello che Fransceschini chiama, sulla traccia di Dussel, il «macro soggetto storico metafisico» Europa: un’ego-teo-logia (nella definizione di Dussel) nata nella Grecia antica e che si è arrogata sin dall’inizio il diritto di autorappresentarsi come vero «universale». Un diritto divenuto sempre di più non solo violenza materiale, ma anche epistemica, nel senso che la storia della filosofia mostra una quasi totale complicità con il dominio coloniale occidentale. È in questo senso, ricorda Franceschini, che gli autori decoloniali ci chiedono di parlare di «geopolitica della conoscenza» e non di conoscenza di per sè.

Resistenze indigene

Si tratta di uno schema di tipo metafisico o culturalista che ricorda la struttura di Orientalismo di Edward Said. In entrambi i casi – benchè a partire da punti di riferimento diversi (Auerbach, Foucault e il post-strutturalismo per Said, una lettura particolare di Levinas, Fanon e della pedagogia dell’oppresso di Paulo Freire per Dussel) l’Europa viene abbordata come un soggetto-macchina metafisico emerso nell’antica Grecia, perfezionatosi nella modernità grazie allo sviluppo del cogito cartesiano e del colonialismo e tuttora capace di sussumere e assoggettare ogni differenza/alterità culturale. È in questo senso che i decoloniali parlano di una colonialità costitutiva dell’essere, del sapere e del potere occidentali. Ma a differenza di Said, i «decoloniali» non solo si concentrano su una diversa regione geografica (l’America latina), ma cercano di tenere più in considerazione l’emergere del moderno sistema-mondo economico nella costituzione del dispositivo coloniale del soggetto occidentale moderno e, soprattutto, prendono come proprio punto di partenza le prinicipali voci della resistenza indigena alla colonizzazione: è nel recupero delle loro visioni silenziate dalla violenza culturale dell’Europa che risiede l’alternativa dialogica al monologo occidentale, la costituzione di una vera «pluriversalità» (riprendendo il termine stesso di Dussel).

Franceschini accoglie questo suggerimento e passa così in rassegna le critiche anticoloniali storiche di molte di quelle figure «indigene» che il pensiero decoloniale considera come i propri antesignani: Francisco de Miranda, Francisco Bilbao, Guamàm Poma de Ayala fino a Césaire, Fanon e al marxismo indigenista di Josè Carlos Mariategui.

La categoria rimossa

Sta qui sicuramente uno degli aspetti più interessanti del testo: la messa a fuoco di una genealogia «decoloniale» nell’analisi della modernità europea. Ma non è l’unico. Importante anche è il tentativo di ricollocare la categoria di «razza» al centro stesso della costituzione della modernità capitalistica, ovvero nel momento chiave dell’appropriazione occidentale del globo. Franceschini ci sollecita a considerare «razza» come una delle categorie fondamentali per la comprensione della modernità, alla pari di altre più correnti come sovranità, capitale, stato, diritto, dio. Non si può negare che, al di là di alcuni recenti tentativi che vanno nella direzione del «nominare la razza» come elemento centrale della costituzione materiale dell’Europa, si tratta di una questione assai poco dibattuta nello scenario intellettuale italiano; nonostante la quotidiana recrudescenza della violenza razzista entro i confini nazionali, razza continua a essere un significante tabù per la pratica teorica e politica non solo italiana, ma anche europea.

Il lavoro di Franceschini dunque è un interessante invito a «decolonizzare la cultura» dall’ottica decoloniale. Il titolo del volume tuttavia non riesce a rendere in modo efficace la prospettiva auspicata dal testo. Potrebbe indurre a pensare la parola cultura proprio in quel senso «universalistico» ed «eurocentrico» giustamente denunciato da Franceschini, ovvero a confonderla con il significante Europa.

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