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Lo Spedale de’ pazzerelli

Lo Spedale de’ pazzerelliLavanderia a vapore

Reportage Alla scoperta degli ospedali psichiatrici piemontesi a quarant'anni dalla legge Basaglia

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 7 aprile 2018
Luciano Del SetteCOLLEGNO (TO)

A Torino, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, capitava ancora e sovente di sentirli pronunciare. Erano i nomi di una via, Carlo Ignazio Giulio, per tutti soltanto via Giulio, e di una cittadina della cintura, Collegno. Uscivano fuori se qualcuno diceva, proponeva, faceva, qualcosa di bizzarro. Allora, scherzando, lo si derideva, ‘Sei scappato da via Giulio?’; si fingeva di minacciarlo ‘Guarda che ti mando a Collegno’. Via Giulio e Collegno: i manicomi (meno famoso il terzo, a Grugliasco) che mettevano inquietudine a passarci davanti, anche senza sapere cosa succedesse lì. Potevi solo immaginarlo, con un brivido, ascoltando racconti all’insegna del ‘me lo ha detto uno che…’, dove gli uomini e le donne erano creature prossime al mostruoso, pericolose, nel migliore dei casi strane e imbarazzanti. Comunque, fuori dalla norma. Bene, allora, pur esprimendo la più profonda e cristiana pietà, che se ne stessero rinchiuse. Il filo della storia di via Giulio e di Collegno arrivò a intrecciarsi nella seconda metà dell’Ottocento. Ai primi del Novecento le due prigioni dei folli si legarono l’una alla drammatica esistenza di uno scrittore, l’altra a un caso che per decenni fece discutere l’Italia intera. Per entrambe, la parola fine fu scritta anticipando, seppur di poco, l’applicazione della Legge 180, la Legge Basaglia, di cui il 2018 celebra i quarant’anni. Lo ‘Spedale dei pazzarelli’ viene aperto nel 1729 sul terreno donato da Vittorio Amedeo II alla Confraternita del ss. Sudario e Beata Vergine, in corrispondenza delle attuali via Giulio e via Piave. L’edificio, che ospita (accoglie suonerebbe del tutto fuori luogo) un centinaio di pazienti, cede il passo, un secolo dopo, al Regio Manicomio, costruito dal 1828 al 1836 su progetto dell’architetto Giuseppe Talucchi, sempre nell’area di via Giulio. La struttura, pensata per quattrocento tra uomini e donne, già nel 1854 registra più di cinquecento presenze. Occorre dunque ampliare gli spazi. La Certosa di Collegno e i suoi annessi rappresentano un’ottima soluzione. I rapporti con i religiosi, dapprima disponibili ad accogliere gratuitamente alcuni pazienti, ben presto si incrinano. Nel 1853, la minaccia di un’epidemia di colera porta il ministro degli Interni a decidere di destinare l’intero complesso ad uso ospedaliero; uso che l’abrogazione delle corporazioni religiose, nel 1855, sancirà in via definitiva. Nel 1856, la Certosa passa al Regio Manicomio. L’ingegner Giovanni Battista Ferrante lavora al riutilizzo dei fabbricati esistenti e allo studio di nuovi padiglioni. L’immensa opera diventa un vero e proprio modello di architettura manicomiale, che registrerà ulteriori evoluzioni nei decenni a seguire, come raccontato in altra parte di queste pagine, fino a diventare la più grande d’Italia nel suo genere. Il 19 aprile del 1911 un medico suona al portone di via Giulio. Porta con sé una donna, quarantatré anni, cento chili di peso, lo sguardo perduto. Ai colleghi, il medico descrive una persona soggetta a scatti d’ira violenti, che negli ultimi mesi si ripetono con maggior frequenza, alternati a stati di esaltazione, oppure di totale distanza dalla realtà, complice l’alcolismo. Sul referto che diagnostica una ‘psicosi periodica’ e decide di tenerla in osservazione due settimane, il nome della donna risulta essere Ida Peruzzi, moglie di Emilio Salgari. Lo scrittore non reggerà l’ennesima sciagura della sua vita e si suiciderà il 25 aprile. Ida morirà in via Giulio nel 1922. Il 6 febbraio 1927, il popolarissimo settimanale La domenica del Corriere pubblica nella rubrica Chi li ha visti? la fotografia di un uomo ricoverato un anno prima a Collegno. I carabinieri lo avevano fermato mentre vagabondava per Torino gridando di volersi suicidare. Nel corso della visita medica si era rivelato persona educata e istruita, afflitta però da amnesia totale e perciò internata con il numero di matricola 44170. Giulia Canella vede la foto sulla Domenica e ha un sobbalzo: è lui, proprio lui, suo marito Giulio, insegnante di filosofia a Verona, disperso durante la prima guerra mondiale. Giulio e Giulia si incontrano il 27 febbraio, lei lo riconosce, lui no. I ricordi affioreranno via via, e l’identificazione del professor Canella è ufficializzata. L’otto marzo, secondo colpo di scena: il questore di Torino ordina l’arresto di Canella, che una lettera anonima afferma essere in realtà Mario Bruneri, tipografo di fede anarchica, senza fissa dimora, ricercato per alcune condanne. La moglie, il figlio, le sorelle e il fratello, l’amante Milly lo identificano. Circola però il sospetto che dietro di loro ci sia la polizia del Fascio; sospetto aggravato dalla manipolazione di altre prove a favore. Il dibattitto giudiziario intorno allo Smemorato di Collegno si chiude nel 1931, quando la Cassazione conferma la sentenza del tribunale di Firenze: quell’uomo è Bruneri e in quanto tale deve scontare la pena inflittagli. Nel frattempo, Canella ha dato a Giulia, con cui vive, tre figli, non riconosciuti dalla legge italiana. La dismissione di via Giulio data al 1975 per lasciare il posto agli uffici dell’anagrafe comunale. Nel 1977, Luciano Manzi, sindaco di Collegno e poi senatore nelle file di Rifondazione e dei Comunisti Italiani, decreta l’abbattimento del muro del manicomio. Da Trieste, il sogno ostinato di Franco Basaglia è arrivato fin qui.

Di certo non sarebbe servito a dissolvere i pettegolezzi sulle sue numerose avventure extra coniugali. Però, quantomeno, avrebbe dimostrato che dietro la femme fatale si nascondeva una donna devota e pia. Fu questo, forse, a spingere Maria Cristina di Francia, moglie di Vittorio Amedeo I di Savoia, a onorare un voto fatto a Grenoble nel 1640: costruire una certosa che rivaleggiasse con quella della città d’Oltralpe. L’anno seguente, la nobildonna acquista dal conte Ottavio Provana il palazzo Data con i terreni di competenza, e in seguito altri appezzamenti, boschi, prati. Nel 1648 iniziano i lavori del monastero della Certosa di Collegno, che partendo dal palazzo si svilupperà secondo un sistema di tre chiostri su cui si innestano una serie di edifici. Dal 1719 al 1725 viene realizzato il chiostro grande, e attorno le celle dei monaci. Nel successivo decennio, gli interventi dell’architetto Filippo Juvara aprono la Certosa al mondo esterno anche simbolicamente attraverso il portale aulico. Un secolo e mezzo dopo, la comunità Certosina è costretta ad abbandonare il monastero, destinato a succursale del Regio Manicomio di Torino. Tra il 1864 e il 1900, dal progetto degli ingegneri Ferrante e Fenoglio nascono i padiglioni a due o tre piani, per i degenti; il padiglione 21, ‘dei criminali’; i Locali Giardinieri. Ulteriori lavori di ampliamento dal 1928 al 1950 creano lo Stabulario e il Laboratorio Vimini (scomparsi), i Laboratori Arti e Mestieri, le Ville Regina Margherita; nel 1970, sorgerà Villa Rosa, padiglione psicogeriatrico femminile. La macchina manicomio si ferma con la Legge Basaglia, nel 1979 il muro già parzialmente demolito grazie al sindaco Masi, scompare sotto i colpi delle ruspe. L’Ospedale Psichiatrico, questo il suo più ‘moderno’ nome, chiude nel 1982, pur continuando a ospitare un piccolo nucleo di pazienti fino al 1997. Il comune di Collegno decide allora di trasformare un luogo di sofferenze, crudeltà, oppressione, in una realtà cittadina dedicata alla cultura, al tempo libero, all’istruzione, dentro quattro ettari di verde e i vecchi padiglioni. Uno di questi, in cui i degenti seguivano un sedicente programma di recupero, che di fatto si traduceva nello sfruttamento di manodopera gratuita, era destinato alla Lavanderia, costruita nel 1897. Gli amministratori pubblici locali e regionali ne avviano il restauro nel 2004, concluso da lì a quattro anni. L’edificio torna a restituire le sue architetture, splendido esempio di archeologia industriale, in cui spiccano le grandi finestre verticali ad arcate in mattoni e la ciminiera centrale. Il 26 marzo del 2008, l’inaugurazione della Lavanderia, ribattezzata ‘a vapore’, apre le porte di

un centro regionale di eccellenza della danza, dal 2009 affidato in gestione al Balletto Teatro di Torino e dal 2015 in concessione decennale alla Fondazione Piemonte dal Vivo. Nei grandi spazi interni, mille e duecento metri quadri caratterizzati dall’imponenza della navata principale, sono scomparse le vasche in cemento su cui un tempo uomini e donne stavano curvi a lavare montagne di lenzuola e divise; sono scomparse le attrezzature per l’asciugatura e la stiratura, le vetrate divisorie. Al loro posto due sale prove, un teatro da duecento e ottanta posti, una sala espositiva, gli uffici. È qui che la collaborazione della Fondazione, con il Teatro Stabile di Torino/ Torinodanza festival, il Teatro Piemonte Europa, l’Associazione Mosaico Danza e l’Associazione COORPI, disegna ogni anno un cartellone di rassegne ed eventi di respiro internazionale, incentiva il confronto artistico sul modello dei centri coreografici europei, organizza residenze a carattere formativo e innovativo, crea progetti speciali di partecipazione. Idea guida di ogni attività è la libertà di muoversi, di esprimersi, in un luogo aperto; di abitare una Casa della Danza punto di riferimento per incontrarsi, partecipare e, ovviamente e prima di tutto, ballare. Together we dance, titolo della stagione 2017/ 2018, sottolineatura dello spirito collettivo che anima la Lavanderia a vapore, ospita alcuni eventi del cartellone speciale del comune per i quarant’anni della Legge 180. Da aprile a fine maggio, sul palco si avvicenderanno, tra gli altri, gli spettacoli di danza Border Tales, Serata Dantzaz; Habitazioni – Itinerari abitabili, concept corpografia, materiali sonori e video; 3×8 Trittico d’autore + Interplay Link, con otto danzatori in scena; lo storico gruppo rock progressive Arti & Mestieri, Simone Cristicchi con Lettere dal manicomio, Mun in concerto. Info, piemontedalvivo.it/lavanderia-a-vapore. Oggi, a Collegno, il manicomio è diventato un ricordo. Nitido nella memoria dei vecchi, confuso o assente in quella delle generazioni nuove. Bisogna conservarlo, il ricordo, andare a cercarlo. Ad esempio in una poesia scritta da Lucia Saltarin, ex reclusa «È certo, morirò/ ma chi si ricorderà, a chi perdonerò le ingiurie provate in gioventù/ Morissi almeno vecchia con la mia foto stampata/ dalle rughe che cantano la bellezza di un’età/ che cerca di vivere eternamente sulla terra che vuole il bene».

Il caso giudiziario Bruneri/ Canella, meglio conosciuto come Il caso dello Smemorato di Collegno, non fu l’unico a coinvolgere l’Ospedale psichiatrico. Ben più grave, pur se meno conosciuto, quello che vide sul banco degli imputati, dal 1970 al 1974, il vicedirettore dell’Ospedale, lo psichiatra Giorgio Coda, con l’accusa di abuso dei mezzi di correzione. Identica accusa gli era già costata un processo per i metodi adottati quando era direttore della struttura manicomiale di Villa Azzurra, a Grugliasco. Il 7 settembre 1970, il medico, condannato, aveva però usufruito di un’amnistia. Il 14 dicembre dello stesso anno, l’Associazione per la lotta contro le malattie mentali presenta un esposto che denuncia, nella struttura di Collegno, l’impiego indiscriminato dell’elettroshock da parte di Coda. Con tale frequenza da meritargli il soprannome di ‘l’elettricista’. Le scariche vengono applicate a lungo sui genitali e alle tempie senza che il degente perda i sensi, provocandogli dolori atroci. Il trattamento, secondo il medico a scopi terapeutici, è praticato in assenza di anestesia, dell’apposita pomata e della gomma in bocca che impedisce di mordersi la lingua durante gli spasmi. Vittime preferite di una vera e propria forma di tortura, gli alcolisti, i tossicodipendenti, gli omosessuali e chi viene scoperto a masturbarsi. L’inchiesta accerta che l’uso dell’elettroshock non risparmiava neppure i bambini. Coda, durante il dibattimento, confessò di aver eseguito circa cinquemila elettromassaggi, come lui amava definirli. La pubblica accusa sostenne che alcuni suicidi avvenuti nei reparti fossero conseguenza del terrore generato dall’ignobile procedura. La sentenza dell’11 luglio 1974 inflisse al medico, se tale si può chiamare, cinque anni di carcere, cinque di interdizione dall’esercizio della professione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il giornalista del quotidiano La Stampa Alberto Papuzzi scrisse, nel 1977, un libro – inchiesta sulla vicenda, pubblicato da Einaudi nella collana Gli struzzi, diretta da Corrado Stajano. Il titolo, Portami su quello che canta, fu suggerito dalla testimonianza di un infermiere, Giuseppe Biasini, riportata da Stajano nelle pagine introduttive «Ricordo che disse (il Coda, ndr): ‘portami su quello che canta’. Non sono in grado di precisare per quale ragione il paziente fosse ricoverato… Fu messo insieme agli altri e gli fu praticato l’elettromassaggio… nel dormitorio grosso». In altra pagina, Stajano annota «I volti, gli occhi, le lacrime dei malati, stretti agli studenti e agli operai in quell’aula del tribunale di Torino, resteranno indimenticabili. Per la passione di un gruppo di cittadini… che si sono battuti surrogando con l’azione spontanea le omissioni e le complicità dello Stato e dei governi nazionali e locali e le assenze delle forze politiche». Omissioni, complicità, assenza. Nemici contro i quali Franco Basaglia dovrà lottare a lungo perché nessuno possa più ordinare ‘Portami su quello che canta’.

 

le manifestazioni

Quello che tutti chiamavano manicomio è il titolo unificante delle iniziative organizzate dal comune di Collegno per i quarant’anni della Legge 180. Spettacoli teatrali, concerti, mostre di pittura e fotografiche si svolgeranno in varie sedi, tra cui la Lavanderia a vapore e la Stireria. Il 19 aprile Les petits Filou presentano Angelina. Un viaggio nelle pieghe del pensiero. Una settimana dopo sale sul palco Assemblea Teatro con Più di mille giovedì. Le pazze di Plaza de Majo e il 17 maggio con Pazze all’opera. Il progetto Oltre il muro raduna i lavori fotografici di Ivan Agatiello (Prigioni della mente), Gianni Berengo Gardin (Manicomi), la collettiva Senza lacci nelle scarpe. Nadia Lorefice ha curato Inner landscapes, opere pittoriche di ex-degenti del manicomio, in dialogo con opere di artisti contemporanei. Al Museo della Resistenza la mostra Schedati, perseguitati, sterminati. Malati psichici e disabili durante il nazionalsocialismo. Info, comune.collegno,gov.it, piemontedalvivo.it (lds)

Il bistrò solidale

La Villa 5, una delle Ville Regina Margherita dove i ricchi torinesi ricoveravano i parenti, e non di rado se ne sbarazzavano, è divenuta sede del Bees -trò Asylum Osteria nel parco, il luogo di ristoro di un’azienda agricola sociale che impiega persone in difficoltà. Le materie prime provengono dall’agricoltura biologica e organica aziendale e da una rete di produttori locali. Cibo buono e giusto, per dirla con Carlin Petrini. Citazioni dal menu del territorio: insalata russa e salumi artigianali, gnocchi di patate blu, ravioli di borragine al burro e timo, tartare piemontese, vasetto di mascarpone con biscotto di Novara. Buona la scelta dei vini. Ambiente molto piacevole, servizio efficiente e cordiale, bel dehors estivo, corretto rapporto qualità/ prezzo. Info, 011 4038479, 375 5032086 (lds)

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