Nei decenni passati ci hanno strabiliato o turbato. Le abbiamo amate, vissute, condivise o detestate, tanto erano divisive. Rincontrarne alcune, ora, scatena quasi una sensazione di militante appartenenza. Sono le opere dialettiche che provengono dalla invidiabile collezione Sandretto Re Rebaudengo e rimandano ai bagliori e alle ombre degli ultimi trent’anni della storia culturale contemporanea all’interno del côté dell’arte, pieno di svolte, azzardi e riposizionamenti. Sono circa settanta e sono esposte nella mostra Reaching for the Stars, da Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye, curata da Arturo Galansino (aperta fino al 18 giugno) e allestita in sezioni tematiche e in due spazi fra Palazzo Strozzi e la Strozzina di Firenze.
Reaching for the Stars ha soprattutto l’onere di tramandare alle nuove generazioni quel vissuto estetico postmoderno, maledettamente sfuggitogli. È stato un debordamento linguistico in cui il fare artistico si è decodificato da stereotipi e stilemi, trasportandoci in un flusso di connessioni che inglobava una intera sensibilità e surclassava categorie.

LA SEMANTICA ESTETICA, da sempre ventriloqua, slittava da sé stessa per agglutinarsi a quella «passione per il reale» identificata da Alain Badiou. Così si globalizzava, spesso privilegiando l’elemento spettacolare ed eclatante, declinandosi in performance, audio, testo e carezzando quel mood for show tipico della comunicazione contemporanea. La visuality polisemica era inverata da quegli artisti che, all’epoca discussi e imberbi, sono divenuti oggi mainstream.
Si evince dalla radicalità con cui un esordiente Charles Ray, nella stampa fotografica Untitled (1973) si faceva ritrarre, sospeso e avvinghiato al ramo di un albero, insinuando la compenetrazione con la natura e il controllo del processo performatico. Di Ray è esposta anche l’installazione Viral Research (1986), evocazione pungente del virus Hiv.

NELL’INTRODURRE IL REALE all’interno dell’esperienza estetica avveniva una sorta di corto circuito che Mario Perniola descriveva come «shock del reale». Questo trauma innescato nello spettatore ridefiniva l’opera che, non più consolatoria né illusionistica, innescava un processo di relazione e di cattura nell’osservatore, attraverso espedienti concettuali, tematici, pulsionali o formali.

CHI MEGLIO dello shockaholic Damien Hirst? In Love Is Great (1994) appuntando con spilloni delle farfalle sulla tela verniciata di azzurro, rinvia alla fugacità della vita, mentre con l’installazione The Acquired Inability to Escape, Inverted and Divided (1993) in cui un tavolo e una sedia da ufficio rovesciate son racchiusi in una cella di vetro, rimanda alla condizione claustrofobica esistenziale.
Tra il sensazionalismo concettuale, lo sberleffo, la irriverenza tutelare, la desacralizzazione di personaggi e di concetti prestabiliti si muoveva l’uragano Maurizio Cattelan che in Reaching for the Stars irrompe con una epifania, la micro-installazione Bidibidobidiboo (1996) in cui uno scoiattolo tassidermizzato, suicidatosi con un colpo di pistola, sta con la testa riversa sul tavolo di formica in una scarna cucina.
Stesso spaesamento si prova per La rivoluzione siamo noi (2000) in cui un alias di resina di Cattelan, si riappropria dell’abito di feltro beuysiano e dell’appendiabiti di Marcel Breuer su cui è appeso. O in Lullaby, il cui sacco conserva macerie dell’attentato mafioso del luglio 1993 al Pac di Milano, costato la vita a cinque persone. E ancora in Cesena 47-A.C. Forniture Sud 12 (2° tempo) del 1991.

CONTINUANDO a immergersi volentieri nel déjà vu, la costellazione iconica è solcata da Sarah Lucas, Cerith Wyn Evans, Vanessa Beecroft, Barbara Kruger, Cindy Sherman, Josh Kline e Glenn Brown, Jeff Wall, Thomas Ruff, Thomas Struth, Andreas Gursky, Shirin Neshat, William Kentridge, Wael Shawky, Sherrie Levine, Andra Ursuta fino alla giovane Lynette Yiadom-Boakye, per dribblare tra Wolfgang Tillmans, Berlinde De Bruyckere, Tauba Auerbach e Cecily Brown.
Spostandosi nella Strozzina che ospita le videoinstallazioni, ci si imbatte nella constructed situation di Tino Sehgal This You (2006) in cui l’artista, vero corpo celeste, affida alla voce, alla corporeità e alla sensibilità della player il compito di interagire con lo spettatore. La ragazza, in piedi nel bianco corridoio, sorprende il fruitore accennando refrain musicali, tra cui Il cielo in una stanza di Gino Paoli, lo cattura dalla frenesia della visita facendogli ritagliare una esperienza mnemonica e intima.
E si continua tra le mesmeriche visioni di Zidane. A 21st Century Portrait (2005) di Douglas Gordon e Philippe Parreno, The End-Rocky Mountains (2009) di Ragnar Kjartansson, Saint Sebastian (2001) di Fiona Tan, Thaw (2001) di Doug Aitken, per terminare il tragitto in cortile, dove svetta Gonogo (2023) di Goshka Macuga.