Lo sguardo progettato
Segni particolari 2 Gianluigi Pescolderung/Studio Tapiro il marchio della cultura veneziana
Segni particolari 2 Gianluigi Pescolderung/Studio Tapiro il marchio della cultura veneziana
Sulla laguna da oltre 35 anni esiste uno degli studi italiani di grafica più importanti, noto anche all’estero, grazie ad esposizioni personali al Centre Pompidou nel 1998 o alla Ginza Graphic Gallery di Osaka nel 2002. Parliamo dello Studio Tapiro, la cui attività è profondamente legata alla cultura e all’iconografia di Venezia.
Fondato nel 1979 da Enrico Camplani e Gianluigi Pescolderung – entrambi laureati in architettura allo IUAV e per formazione artistica rispettivamente fotografo e illustratore – questo marchio di eccellenza ha spaziato nei diversi campi della creazione visuale: dal progetto d’identità all’immagine editoriale, dal design dell’informazione al wayfinding, dalla grafica d’ambiente al poster-design e all’illustrazione. I «tapiri» sono strettamente legati alla Biennale di Venezia, per le cui diverse sezioni (cinema, teatro-danza-musica, arti visive, architettura) hanno curato l’immagine complessiva dal 1983 fino al 2001, ridisegnandone anche l’emblema, tutt’ora in uso, del leone alato.
Dalla scomparsa di Camplani, avvenuta oltre due anni fa, è il solo Pescolderung con la sua équipe di giovani collaboratori a portare avanti l’attività dello studio, anche se nel corso della conversazione l’intervistato continuerà ad usare il noi: «Quando manca qualcuno che rappresenta il cinquanta per cento della costruzione di un pensiero condiviso», racconta Pescolderung, «il dialogo con questa persona continua. Anche durante la malattia Enrico mi rassicurava dicendo che attraverso l’opera realizzata insieme nel corso di oltre trent’anni, avrebbe continuato ad esserci. E così è stato. Lo dico senza retorica».
Nel campo della grafica editoriale, centrale per la storia dello studio è la collaborazione – iniziata nel 1982 – con Marsilio, estesa in questi ultimi anni al rinnovamento dell’identità grafica della casa editrice Sonzogno.
C’è poi la vasta produzione di manifesti, diverse centinaia, per eventi di vario genere, progetti in cui Camplani e Pescolderung hanno dato prova del loro originale approccio progettuale. Passando in rassegna i poster concepiti per la Biennale, dagli anni ’80 all’inizio dei duemila, appare evidente la linea progressiva di un discorso iconografico che diventa sempre più essenziale: dai manifesti del 1984, 1985, 1986 e 1987, caratterizzati da incorniciature e texture geometriche, alcune di sapore secessionista, che hanno contribuito a infondere una forte identità all’istituzione, si giunge nel 1998 ai poster, alle copertine dei cataloghi e a tutta l’immagine coordinata della Mostra d’arte cinematografica basata sulla figura di un leone smaterializzato, sfumato, smerigliato, mentre la comunicazione visuale dei settori teatro e musica sono all’insegna di deformazioni luminose. Ma sarebbe impossibile sintetizzare la ricchezza del linguaggio tapiresco e la varietà delle sue applicazioni.
Anche la corporate image per fondazioni, università, comuni, aziende, hotel, ristoranti costituisce una parte importante della loro ricerca. E sono numerosi i progetti di sistemi informativi d’ambiente e identità visuali per aeroporti, metropolitane, per il patrimonio storico-artistico di centri storici (con il Touring Club Italiano), musei, teatri e altre istituzioni, nonché gli allestimenti per mostre temporanee (da Mantegna a Tiziano, da Warhol al più recente Lux in Arcana allestita ai musei Capitolini con Studio Visuale).
Il graphic design si fonde poi con l’ambiente circostante e con l’architettura generando quella «archigrafia» che rappresenta un altro settore dove si è distinto l’impegno progettuale del duo: liberandosi dal foglio di carta, il lettering assume connotati e proporzioni sorprendenti, trasformandosi di recente nella facciata di uno dei più grandi edifici pubblici d’Europa, i Docks di Marsiglia. È il trionfo della grafica e della scrittura come parte integrante della città, delle relazioni e del vivere urbano: una grafica viva e scultorea che segna il ritorno di Pescolderung alla sua formazione di architetto.
Diverse le esposizioni di cui lo studio è stato protagonista. Oltre a quelle citate, ricordiamo la mostra al Design Museum di Londra nel 1994; la retrospettiva «Il cantiere dell’occhio» allestita alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia nel 1999; la mostra presso la Bibliotheque National de France di Parigi (che ha acquisito anche loro opere nella collezione permanente) nel 2001; la mostra dedicata ai manifesti dello studio a Città del Messico nel 2002 e, di recente, la partecipazione alla retrospettiva sulla grafica italiana tenutasi alla Triennale di Milano nel 2012.
Secondo te ha ancora senso parlare di graphic e visual design oppure il panorama (e quindi anche l’approccio a questo lavoro) si è radicalmente trasformato?
Il nostro mestiere consiste nel costruire sistemi che guidino lo sguardo e trasmettano informazioni ed emozioni applicate alle cose più diverse.
I termini di graphic e visual design non definiscono più questo mestiere, poiché la comunicazione (e tutti i fenomeni collegati) è variegata, multicanale, diffusa. Di conseguenza sono emerse figure settoriali qualificate. Si parla ormai di graphic design con aggettivazioni particolari come graphic journalism, graphic narrative, graphic ambient, graphic movie, info-graphic, e si potrebbe continuare. Il concetto originario – ovvero dare forma alla scrittura, al libro – non è sufficiente per definire il mestiere di oggi. Io ed Enrico abbiamo sempre pensato che il nostro lavoro fosse lì dove c’è uno sguardo progettato.
Parliamo dei vostri inizi.
A scoprire il nostro lavoro nei «piani alti» della cultura italiana fu Paolo Portoghesi: ci notò sui muri della città e diede fiducia a due grafici allora appena ventottenni. Erano anni di grande cambiamento per la cultura visiva nel nostro paese, si andava affermando il postmodernismo, molte certezze del mondo del progetto erano in discussione. Poi abbiamo preso il volo e a quel punto siamo diventati un’esperienza unica in Italia, separati radicalmente dall’ambiente milanese.
Hai toccato un punto centrale: voi operate a Venezia, mentre il crocevia delle varie forme di design è Milano, dunque siete sempre stati isolati rispetto all’establishement.
Le nostre poche relazioni nel mondo della grafica italiana rimandano a quella che Anceschi ha definito «la stagione della grafica di pubblica utilità». Non abbiamo mai condiviso alcuni riferimenti che sono considerati ancora oggi i fondamenti della grafica nostrana. Ci siamo distinti per una «grafica liquida» che prende forma nel rapporto con il contenuto, come l’acqua che si adatta al contenitore. Abbiamo sempre interpretato il nostro lavoro come una scoperta continua, senza basarci su uno stile predeterminato, formalismi e linguaggi autoreferenziali. La nostra è un’esplorazione priva di manierismo. Il valore intellettuale della grafica è prima di tutto comprensione e dialogo.
D’accordo, ma ci sarà pure uno stile Tapiro.
Lo abbiamo costruito nel dialogo con la materia della grafica e con il soggetto, il contenuto. Per noi trattare un tema vuol dire sempre entrare dentro il suo DNA, incontrare la sua essenza e da questo generare il linguaggio. La nostra è un’opera «chimica», o meglio «alchemica». Siamo stati molto emarginati dal pensiero critico dominante nel campo del design. Il nostro stile non è stato mai davvero compreso e decifrato a fondo. E questo anche a causa nostra. Siamo sempre stati poco favorevoli ad aiutare la nostra visibilità, la conoscenza della nostra opera al di fuori del contesto dove l’opera agiva.
Da cosa si riconosce il vostro marchio di fabbrica?
Studio Tapiro lo riconosci perché le soluzioni visuali sono come porte aperte che ti conducono ad andare oltre il contenuto più evidente del messaggio. Non siamo mai per la semplificazione, ma per una grafica ad alta densità semantica. Inoltre abbiamo sempre cercato un’antiretorica, profondamente emotiva e comunicativa. Difficilmente ripetiamo le soluzioni, ma non rinunciamo mai alla ricerca dell’incanto e dello stupore, provocati dall’unità tra parola e immagine. I lavori più interessanti sono nati quando il testo diventa figura. Al di là della tecnica, la visione deve sempre essere chiara e guidare il progetto.
È possibile suddividere la vostra attività in alcune fasi principali?
In una prima fase abbiamo progettato molto per la cultura e ciò ha segnato profondamente il nostro approccio. Il lavoro per la Biennale ci ha permesso di entrare in contatto con figure del mondo dell’arte, del linguaggio, del teatro, del cinema, della musica, allargando la nostra visione. Nella seconda fase abbiamo spaziato in altri contesti: i servizi, l’impresa, il turismo, la mobilità urbana, i beni culturali e ambientali, il campo dell’educazione.
Un altro campo in cui avete operato è la grafica per i giochi.
Si, ne abbiamo realizzati molti, sia in Italia che all’estero. Nel 1988 abbiamo vinto il premio di graphic design più prestigioso in questo settore, quello della Fiera di Norimberga, per Inkognito, gioco di strategia da tavolo di Alex Randolph e Leo Collovini, che ha venduto oltre un milione di copie nel mondo ed è stato tradotto in diverse lingue. Un’altra soddisfazione l’abbiamo avuta tre anni fa, quando un altro gioco disegnato da noi, Jetz fahrn wir ubern see, è stato adottato dal Ministero della pubblica istruzione in Germania per insegnare la lingua tedesca ai bambini delle scuole elementari, attraverso le tradizionali filastrocche tedesche.
Quanto conta per te, penso al lavoro per la Biennale, l’immagine coordinata?
Non è l’«immagine coordinata» ad essere importante, ma quella che definirei l’«immagine coerente». Un esempio di natura antropologica: se entri in contatto con una comunità etnica, scopri che tutte le cose sono diverse e, tuttavia, coerenti. Percepisci la congruenza, la conformità di un’identità collettiva. Da cosa nasce? Dall’anima della loro civiltà materiale. Ma come diventano possibili stereotipi in assenza di un intento preciso? Come si spiega il forte carattere identitario frutto di un’opera collettiva e non progettata? Forse perché c’è sempre un dialogo tra le cose. E allora bisogna cercare nelle matrici originarie di questo dialogo, tra identità, materia e tradizione. L’immagine coordinata interpreta la comunicazione in modo matematico, l’immagine coerente in modo chimico.
Hai preferenze per determinate font?
Non abbiamo mai usato l’Helvetica e preferito alla sua personalità visiva quella del Franklin Gothic, risultato di una civiltà materiale più profonda. Nel lavoro per la Biennale molte font le abbiamo desunte dalla storia della tipografia ridisegnandole. In molti casi font «minori», marginali. Nel caso del concorso vinto nel 1995 per l’identità visiva del Centenario della Biennale, l’OCR di Frutiger è stato introdotto per la sua personalità visiva dominata da una sorta di «non partecipazione» meccanica al contenuto che tratta.
Avete mai creato una font originale?
Si, per la metropolitana di Brescia, partendo dai tipi originali della scrittura longobarda, ovvero del contesto territoriale dove la metropolitana è situata. Io ed Enrico abbiamo sempre pensato che la civiltà materiale di un luogo costituisce una parte essenziale della sua anima. Se ti concentri unicamente sulla variazione della linea, disegnare una font è un esercizio fine a se stesso, ma se ti concentri sul senso e sull’identità della scrittura, trovi nel contenuto le ragioni della linea. Oggi molte font sono simili tra loro, inseguono la moda e sono destinate ad evaporare senza lasciare traccia.
Cos’è che ha più ispirato il tuo lavoro?
La mia passione per l’alpinismo sicuramente ha contato molto. La dimensione della natura incontaminata, che genera il piacere dell’esplorazione, della sorpresa, lo spirito per l’avventura, anche la disponibilità al rischio, alla solitudine in ambienti a volte ostili, il senso di infinito che solo certe dimensioni riescono a dare. Tutto questo mi ha aiutato nella capacità di prendere giuste decisioni, anche nel campo della grafica.
Questo in termini concettuali e astratti, ma influenze più concrete?
Per l’illustrazione ha contato molto Moebius, basti vedere le mie oltre 20 copertine per i racconti di Asimov editi da Bompiani. In questo caso ho fatto solo l’illustratore, il progetto è stato curato dall’amico Francesco Messina, uno dei grafici che più stimo della mia generazione.
A proposito di Moebius, hai mai disegnato fumetti?
Solo uno, agli inizi, con cui ho vinto un premio nel 1980, era un concorso della fondazione Bevilacqua La Masa e mi fu consegnato da Fulvia Serra, allora direttrice di «Linus».
Graphic designer che ritieni maestri?
Devo a Milton Glaser, Seymour Chwast e all’opera dei Push Pin Studios se mi sono convinto a fare questo mestiere, altrimenti oggi forse sarei un architetto, o magari qualcos’altro.
Immagino che la tua formazione architettonica sia importante.
Certamente, per il senso dello spazio e anche per la centralità che l’architettura assume tra le arti. Sono affascinato da architetti come Siza o Ando, ad attrarmi è l’architettura come luogo dell’abbandono e al tempo stesso del cambiamento, del futuro possibile. La nostra migliore maestra, mia e di Enrico, è stata Venezia, una città «senza angolo retto», in cui le epoche si stratificano e si confondono pur restando riconoscibili, dove le architetture sono anche il loro rovescio, riflesse nella profondità dell’acqua.
Tra gli ultimi lavori realizzati da Studio Tapiro c’è anche la facciata per i magazzini Docks di Marsiglia, un’opera permanente visibile da milioni di persone.
Siamo stati incaricati dallo studio genovese 5+1, che hanno ri-progettato i Docks, e per i quali avevamo realizzato il catalogo delle opere, di dare il nostro contributo. La facciata nord dei magazzini è interamente in acciaio con testi letterari dedicati alla città, composti dal ’400 a oggi. Il font impiegato è il Predige, riadattato per conciliarsi con il linguaggio del progetto architettonico. Ci ha sempre interessato la visione della scrittura che entra in risonanza con l’architettura, la lettera tipografica che si fa nervatura della superficie, involucro che ingloba strutture spaziali.
Parliamo di etica del design. Hai mai rinunciato a un lavoro per motivi di coscienza?
Ti racconto un episodio: lavoravamo da sei anni per una grande azienda, una committenza importante anche per il fatturato dello studio. Un giorno il proprietario ha umiliato davanti a noi una sua impiegata. Siamo rimasti senza parole. Tornati a Venezia gli abbiamo rispedito tutto il materiale di lavoro, troncando definitivamente ogni rapporto. Il lavoro è sacro e deve essere rispettato in tutte le sue forme. Qualsiasi risultato impone considerazione e riconoscenza per tutti coloro che con il loro lavoro, anche il più modesto, lo hanno reso possibile.
Ti capita spesso di non essere contento di un progetto oppure che non lo sia il tuo committente?
Non ho mai la sensazione di essere «contento» di quello che faccio. Sono così ossessionato dal dettaglio che devo staccarmi dal progetto, impormi di chiuderlo. Naturalmente accetto che il mio lavoro possa essere rifiutato dal committente. Il problema è capire se rinunciare all’incarico oppure modificare il progetto e andare avanti. Conosco bene le regole: metà del lavoro è nella mia testa, l’altra metà è nella testa e negli occhi del lettore. Sono contento quando riesco a trasmettere piacere, curiosità, conoscenza, a trasformare la grafica in luogo della consapevolezza e dello stupore. Se non succede vuol dire che abbiamo fallito, ma, per mia fortuna, accade raramente.
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