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Lo sguardo inquieto di Ivo Saglietti

Lo sguardo inquieto di Ivo SagliettiIl dolore delle donne sulle bare dei figli

Intervista Incontro con il fotografo in occasione dell'uscita del suo libro. «Cominciai un progetto sul Cile di Pinochet , il colpo di stato aveva aperto ferite profonde»

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 3 luglio 2021

Il tatuaggio, in parte nascosto dall’orologio, fa capolino sul polso sinistro. Ivo Saglietti (Tolone, Francia 1948, vive a Genova) si accende una sigaretta nello studio di Nazario Dal Poz, a Roma, sotto lo sguardo di Pier Paolo Pasolini ritratto da Dino Pedriali, circondato dagli scatti di Mario Dondero, Gianni Berengo Gardin, Fausto Giaccone ed altri grandi fotografi italiani, tutti in bianco e nero. Una conoscenza – diventata profonda amicizia – che risale agli anni ’80, quella tra il fotoreporter e Dal Poz, autore di Haiku per Ivo nel libro Lo sguardo inquieto. Un fotografo in cammino, curato da Federico Montaldo con la prefazione di Paolo Rumiz (Postcart 2021). «Entra in casa con lo zaino sulle spalle, si toglie le scarpe – leggiamo nel primo haiku – «Dopo poco accende la prima sigaretta e si comincia a parlare. Non che Ivo si conceda al primo sguardo. Come un gatto – animale da lui amatissimo – ha bisogno prima di annusare l’aria e osservare con attenzione».

«Lo sguardo inquieto. Un fotografo in cammino» ripercorre la tua esperienza da cineoperatore, a Torino negli anni Settanta, a fotoreporter. Metter mano all’archivio è stato particolarmente impegnativo?

Lo sguardo inquieto nasce dalla volontà di un mio amico genovese, Federico Montaldo, grande appassionato di fotografia, anche lui fotografo, e dall’editore Claudio Corrivetti. La scelta delle fotografie, una settantina, ha avuto a che fare con il racconto. C’è voluto molto tempo, fondamentalmente per la mia pigrizia, ma alla fine sono felice che il libro sia uscito. Un libro è una sorta di incisione sulla pietra, di lì non si torna più indietro. Per quanto riguarda l’archivio, ho conosciuto Alice, una giovane molto intelligente e disponibile che durante la pandemia si è offerta di aiutarmi. Insieme a lei ho ritirato fuori centinaia e centinaia di negativi che abbiamo scansionato, ritrovando immagini che avevo completamente dimenticato e che sono di una certa importanza. In questo senso devo dire che la pandemia è arrivata al momento giusto, anzi mi è servita.

Sei di quei fotografi che durante i viaggi disegni, prendi appunti?

Nel libro ci sono delle immagini dei miei taccuini che contengono più disegni che scrittura. Ho sempre avuto un taccuino per i disegni e uno per la scrittura, ma sono molto sintetico. La sera, o durante il giorno, quando mi sembra di aver visto una cosa interessante me la riproduco con un disegnino, perché non lavorando in digitale se non prendi appunti dopo tre o quattro giorni te la dimentichi. Probabilmente quel disegno lo capisco solo io, ci scrivo sotto luogo, data, ora e sull’altro libricino ci scrivo cose tipo alle sei di sera ho incontrato questo, ho fatto quella cosa pensando a, questa foto è una citazione dell’inizio del film di…

Cosa è scattato nel passaggio da cineoperatore a fotoreporter?

Già da ragazzo avevo la passione per il grande schermo e risparmiavo quei pochi spiccioli che mi dava mio padre per andare al cinema di domenica. Quando, dopo aver smesso l’università e finito il militare, cominciai a chiedermi cosa avrei fatto della mia vita, non avevo delle grandi idee, l’unica cosa chiara era che non volevo ripercorrere il cammino della mia famiglia, quindi andare a lavorare in un ufficio o in fabbrica. Sebbene pensassi che ci dovesse essere un’altra via, trovai lavoro in un’industria di prefabbricati industriali dove guadagnavo molto bene, ma un giorno a Torino in un bar vidi una persona che mi sembrava di conoscere. Io lo guardai, lui mi guardò e alla fine scoprimmo che eravamo stati nello stesso corso all’università. Avevo cominciato con architettura, poi ero passato a scienze politiche. Tu cosa fai? Gli chiesi. Faccio il cinema, mi disse ed è come se si fosse materializzato qualcosa di fronte a me. Piacerebbe anche a me fare cinema, dissi. Lui mi disse vieni. Quando più tardi andai al lavoro, durante il viaggio che durò un’ora, avevo preso la mia decisione. Il giorno dopo ero da Sandro Bignante che è rimasto ancora oggi un mio caro amico. Per la mia visione quasi calvinista del mondo secondo la quale le cose bisogna guadagnarsele, cominciai dal basso come aiuto assistente operatore, ma scoprii anche che il cinema è bello andarlo a vedere, sedersi in una sala e goderselo. Lavorare in questo settore non è che mi affascinasse molto e poi sono una persona piuttosto solitaria. A quel punto successe un altro piccolo incontro con il destino. Sotto i portici di via Po, a Torino, vidi su una bancarella un libro con un titolo strano Minamata. Lo sfogliai e nuovamente ebbi l’intuizione che il destino mi stava passando accanto e che avrei dovuto afferrarlo. Comprai una prima macchina fotografica, un’indimenticabile Leica M3, che non sapevo neanche bene come usare e così cominciai quella che chiamo la «recherche patiente», la ricerca paziente, ed eccomi qui.

Ivo Saglietti, foto di Manuela De Leonardis

Da subito è stato chiaro che la fotografia poteva essere uno strumento d’indagine umanistica?

Non sapevo bene cosa volesse dire fare il fotografo, certo l’umanesimo è sempre stato una condizione fondamentale: l’uomo, la sua vita, il suo destino, l’uomo di fronte al futuro, l’uomo nelle condizioni speranzose o disperate. Quel libro di W. Eugene Smith era chiaramente questo. Però poi cosa vuol dire fare il fotografo? Non è che si diventa fotografo da un momento all’altro. Sapevo usare lo zoom con la macchina da presa ed esporre bene e questo mi ha aiutato e mi aiuta ancora adesso. Cominci con fatica, fai i primi rulli, li sviluppi, li butti via perché non ti piacciono le foto. Qualcuna ti piace pure e magari la vendi, soprattutto ai giornali di sinistra. All’epoca collaboravo con una testata molto bella che si chiamava Nuova Società, ma poi arrivò un momento in cui non ero soddisfatto delle mie fotografie e di come mi stavo muovendo. Nel ’78 decisi di partire per Parigi, con il fattore in più che parlavo francese essendo nato a Toulon da padre italiano e madre francese nizzarda. A Parigi, ovviamente, ho conosciuto Mario Dondero che mi ha introdotto in una piccola agenzia dal nome bellissimo, la Compagnie des Reporters. Poi iniziai a collaborare con Sipa Press per cui feci i primi reportage in Centroamerica.

Proprio con una foto del colera in Perù, nel 1992 vinci il tuo primo World Press Photo nella categoria Daily Life, Stories…

Già da prima mi sentivo un po’ stretto a lavorare con i giornali. Primo perché perdevo il controllo di quello che facevo e secondo perché volevo lavorare in bianco e nero che è la mia visione del mondo. Fin dai primi anni ’80, con il primo viaggio in Salvador, lavorai in pellicola e in più avevo una decina di rulli di diapositive che in realtà non so neanche dove siano finite. Volevo poter lavorare a lungo su un progetto. Nel 1984 cominciai a ragionare sul Cile di Pinochet anche perché il colpo di stato, nel ’73, era stato qualcosa che aveva aperto delle ferite profonde nel nostro animo di sinistra. Nei successivi quattro anni feci una decina di viaggi in Cile, spostandomi anche in altri paesi dalla Colombia al Libano. Quel paese però rimase il centro del mio progetto, tanto che fu anche il soggetto del mio primo libro Chile. Il rumore delle sciabole pubblicato nel 1989. Da lì in avanti ho lavorato solo su progetto. Mi interessa andare in un posto e fermarmi, ritornare. Oggi sembra una banalità ma allora l’idea del progetto fotografico non era così diffusa. Fu un’intuizione che, secondo me, non è stata sbagliata.

Il tatuaggio con la cicogna che hai sul polso nasce da un tuo disegno?

No, ma è legato al progetto sui Balcani che sto portando avanti da fin troppi anni e che deve continuare. È anche un omaggio a Franco Cassano che conobbi in Puglia tanto tempo fa e con cui simpatizzai. Nel suo libro Il pensiero meridiano parla di Theo Angelopoulos e del film Il passo sospeso della cicogna. Siccome una buona parte di questo mio lavoro balcanico ha proprio a che vedere con Angelopulos, in particolare con il film Lo sguardo di Ulisse, e dato che le cicogne non conoscono confini ho deciso di farmi questo tatuaggio. Una roba un po’ da deficienti a 73 anni, ma non importa (sorride). Ricordo ancora il suo primo film, La ricostruzione di un delitto (Anaparastasi), che vidi a casa di amici a Parigi nel ’75. Una storia in bianco e nero che si svolge nelle montagne dell’Epiro a Timphea. A febbraio dell’anno scorso sono andato apposta in Grecia per cercare quel posto – senza trovarlo – per giorni. Poi qualcuno mi ha detto che tutta la zona si chiama così. Malgrado fosse febbraio, poi, c’era un sole che sembrava maggio ed io ho bisogno di luci diverse, della neve, del freddo, della pioggia. Porto la mia anima a dio o al diavolo, a seconda di come si possono vedere le cose.

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