È nel segno del sentimento dello stupore, a un tempo meraviglia e inquietudine di fronte alla bellezza e alla contraddittoria vastità di ciò che si osserva, che Fosco Maraini visitò due volte Gerusalemme tra il 1967 e il 1968, all’indomani della Guerra dei sei giorni. La scoperta delle culture giapponese e tibetana era ormai parte della vicenda personale dell’intellettuale fiorentino, ma lì, nella città culla delle tre grandi religioni monoteiste, Maraini intendeva misurarsi con una sfida al tempo stesso inedita e affine a quella che l’aveva spinto fin dagli anni ’30 verso l’Oriente più lontano: indagare cosa racchiudessero quelle pietre colore della sabbia.

PERCHÉ, AVREBBE SCRITTO reduce da quel viaggio, «a Gerusalemme uomo e pietra s’incontrano, convergono l’uno nell’altra. La pietra di Gerusalemme è intrisa d’uomo». Pietre che non sono come le solite: «ciascuna ha un passato che può essere anche drammatico, terribile. Sono pietre che, se potessero parlare, non avrebbero solo da raccontarci di cristallizzazioni ed erosioni, come quelle dei monti e dei fiumi, ma di lacrime e calore di corpi, talvolta di feste, più spesso di cose urlate in momenti terribili». Ma, soprattutto, a rendere questa città unica tra le altre c’è tutta una dimensione che sconfina nell’invisibile: «Uomini, pietre, Dio: ecco i termini d’un quadro complesso e drammatico».

Tali considerazioni, accompagnate da decine di foto scattate in quell’occasione, l’autore di Ore giapponesi (1957) le avrebbe affidate ad un libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1969 con il titolo di Jerusalem – Rock of Ages e mai tradotto nel nostro Paese. La versione italiana, arricchita dalle note dell’autore conservate al Gabinetto Vieusseux di Firenze, arriva ora in libreria curata da Maria Gloria Roselli e con l’introduzione di Franco Cardini. Le Pietre di Gerusalemme. D’oro, di rame, di luce e di sangue (il Mulino, pp. 248, euro 28) – che sarà presentato domenica a Più libri più liberi, ore 12,30 presso la Sala Luna – racchiude, ancora oggi che il profilo della «città santa» per ebrei, cristiani e musulmani si è impresso in modo indelebile nell’immaginario globale a causa dei conflitti mediorientali, tutta la forza dirompente della «scoperta» che ne fece Maraini. Perdendosi per i vicoli dorati e i giochi d’ombra della città, l’antropologo coglieva infatti già allora nella natura irriducibilmente cosmopolita di Gerusalemme l’antidoto più forte alle tante guerre che per le sue strade si continuano a combattere.

«Gente d’ogni immaginabile aspetto mi passa vicino – scriveva seduto all’ingresso del Santo Sepolcro -: due prelati armeni, pallidi, col pizzetto al mento, col capo coperto dalla mitra alta e triangolare, una comitiva di pellegrini francesi, degli hippies americani, dei frati della regola di San Francesco, un vecchio con fez in capo, una famiglia nera, dei militari israeliani col mitra a tracolla, fanciulle bionde con lunghissime gambe dorate dal sole, delle monache pesantemente coperte, un prete copto, un giovanotto con un asse sul capo lungo il quale stanno distese delle pagnotte appena uscite dal forno».