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Lo sfruttamento «normale» dei grandi marchi

Negozi d'abbigliamento a Milano foto AnsaNegozi d'abbigliamento a Milano – Ansa

Sotto inchiesta Si tratta principalmente di aziende ad alta intensità di manodopera, con modelli organizzativi basati sull’outsourcing totale delle attività produttive o di servizio

Pubblicato circa 14 ore faEdizione del 31 ottobre 2024

Diverse indagini della procura di Milano, condotte a partire dal 2021, hanno rivelato un modello di gestione della subfornitura da parte di grandi imprese, comprese multinazionali, basato sullo sfruttamento della manodopera e su illeciti di natura fiscale e amministrativa. Preoccupante che queste aziende, solide e con un’elevata reputazione, non avessero giustificazioni economiche per tali pratiche illecite. Le ventinove società coinvolte operano in settori diversi – moda, logistica, trasporti, sicurezza e grande distribuzione – ma, nonostante la varietà il modus operandi è conforme: le aziende committenti esternalizzano le attività di produzione o di servizio a società filtro, le quali subappaltano il lavoro a cooperative o srl prive di effettiva capacità produttiva, impiegando manodopera straniera irregolare o, talvolta, italiana.

Si tratta principalmente di aziende ad alta intensità di manodopera, con modelli organizzativi basati sull’outsourcing totale delle attività produttive o di servizio, e dove gli eventi si concentrano sulle attività operative e logistiche. Inoltre, vi è una stretta vicinanza fisica tra l’azienda committente e l’organizzazione operativa finale.

Le frodi fiscali si ripetono nel tempo all’interno di una cultura organizzativa caratterizzata da carenze nei controlli sulla legalità, apparentemente priva di whistleblower interni e con una diffusa «normalizzazione della devianza». Elemento comune a questi casi è lo sfruttamento che si manifesta nell’ultimo anello della catena di subfornitura: i lavoratori coinvolti, prevalentemente stranieri irregolari e scarsamente sindacalizzati, operavano in condizioni di lavoro para-schiavistico, con retribuzioni significativamente inferiori ai minimi contrattuali nazionali previsti, e in condizioni lavorative rischiose, senza adeguati strumenti o tutele per la sicurezza. Le condizioni abitative all’interno dei luoghi di lavoro erano degradate. Tutto questo era facilitato dalle aziende committenti a causa di carenze organizzative e di controllo sui propri fornitori.

Nel caso di una nota impresa dell’alta moda, l’ispettore di «controllo qualità del prodotto finito», dipendente della società, ha dichiarato che, da almeno sei mesi, accertava con visite mensili agli opifici illegali se il tipo di collanti utilizzati per la produzione fosse resistente ai raggi Uv. Nessuna forma di controllo, invece, veniva eseguita sulle condizioni dei lavoratori cinesi impiegati negli opifici, dove le attrezzature erano prive dei necessari dispositivi di sicurezza, per aumentare la capacità produttiva. A titolo esemplificativo, una borsa completa e finita prodotta costava alla committente circa 90 euro e veniva rivenduta a 1.800 euro (nel solo mese di marzo 2023 sono state prodotte circa mille di queste borse).

Simili situazioni lavorative e alloggiative si ritrovano in altri casi di rinomati marchi e si verificavano proprio a Milano, la capitale della moda. In uno di questi, la catena dei contratti sarebbe servita ad abbattere i costi: una bustina portachiavi prodotta dagli opifici cinesi in subfornitura costava 3 euro e veniva rivenduta al cliente finale al prezzo di 48 euro, una borsa a mano costava 19 euro e veniva rivenduta a 350 euro. Queste vicende giudiziarie, anche se non ancora concluse, sollevano interrogativi sui modelli di business e di organizzazione a rete delle grandi aziende, e, più in generale, su un certo tipo di capitalismo contemporaneo. Tali inchieste impongono di chiarire se si tratti di casi isolati, seppur di per sé numerosi, o di un comune modus operandi basato sullo sfruttamento del lavoro. Nel silenzio dei controllori, sembra che solo la magistratura riesca a svolgere il ruolo di attore di controllo sociale, un segnale certamente preoccupante.

Una problematica ulteriore è quella dei criteri di valutazione delle imprese: molte di queste, infatti, avevano ricevuto premi e riconoscimenti di eccellenza, ma è evidente che è sempre più necessario considerare l’intera rete produttiva e non solo la casa madre, dove si concentrano le funzioni di strategia, marketing, e ricerca e sviluppo. Alla luce della pluralità dei settori coinvolti, scoperti in soli tre anni e da una sola procura, quella di Milano, sembra emergere un fenomeno più fisiologico che patologico: un normal organizational wrongdoing legittimato e tollerato in un ambiente deviante. Questo dovrebbe sollecitare una attenta riflessione della politica, che sembra per lo più disinteressata, dei sindacati, spesso assenti, e delle associazioni imprenditoriali, che includono al loro interno queste aziende. Dovrebbe, infine, preoccupare l’intera società che beneficia di prodotti e servizi forniti da queste imprese.

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