Cultura

Nicole Shukin, lo sfruttamento dei corpi non umani

Nicole Shukin, lo sfruttamento dei corpi non umaniUna mandria in Brasile - foto di Jonne Roriz/Bloomberg/Getty Images

TEMPI PRESENTI Anticipiamo la prefazione al volume di Shukin, «Capitale animale», da domani in libreria per le edizioni Tamu. Un ampio campionario di fatti culturali e materiali riguardanti il nostro rapporto con le altre specie. Dalle visite turistiche agli impianti di macellazione, dalla pubblicità al cinema

Pubblicato circa un anno faEdizione del 28 settembre 2023

Il capitale e l’animale non esistono come due entità separate messe in rapporto da una congiunzione. Il capitale e l’animale sono piuttosto presi dentro una soffocante relazione feticistica che annienta le relazioni reali, materiali e corporee. Se è ormai diventato un refrain ricordare che «capitalismo» deriva da caput, «capo di bestiame», il passo che Nicole Shukin compie è quello di indagare dentro quest’aria di famiglia per mettere in luce i dispositivi attraverso cui il capitale esclude l’animale per catturarlo nel momento stesso in cui lo include per cacciarlo, in un doppio (falso) movimento simultaneo che ha fatto del capitale non tanto un corpo senza organi, quanto piuttosto un corpo saturo di organi (di) animali e (di) animalizzati. Non che ciò accada solo a partire dalla modernità capitalistica, ma certamente, con la nascita del capitale e l’invenzione coeva dell’Uomo, si sviluppa e si instaura un’inesorabile animalizzazione degli altri animali, che prosegue tuttora ininterrotta e che discrimina tra i corpi protetti dalle astrazioni gemelle della Natura e del Diritto e i corpi uccidibili impunemente, tra i corpi che hanno un corpo (habeas corpus) e i corpi che sono un corpo (già-cadaveri quando ancora vivi). Produttivi e riproduttivi, ma anche prodotti e riprodotti, persino «inventati», sia materialmente sia in senso figurato, gli animali sono resi consustanziali alla logica del capitale e alla sua valuta.

CIÒ CHE L’ANALISI genealogica di Shukin porta allo scoperto, interrogando un ampio archivio di storie, immagini, documenti e autori, è il rendering. Questo termine, di difficile resa in italiano, ha in inglese una duplice accezione: è l’atto mimetico che permette di ottenere una copia, analogica o digitale, di un corpo vivente e l’attività materiale di sfruttamento intensivo e di riciclo dei resti dei corpi non umani e dei corpi animalizzati. In breve, il rendering è la «colla» che permette al capitale di appropriarsi per intero e quasi senza scarti dell’animale. Dentro le logiche del capitale gli animali circolano al massimo grado come segni, proprio nel momento in cui i loro corpi sono materialmente contenuti/detenuti/annientati in proporzioni apocalittiche e trasformati in «oggetti parziali» che conferiscono una patina di naturale inevitabilità al lavoro necessario a ri/produrli e con il quale non smettono di articolarsi. Questo lavoro del capitale richiede da un lato che i corpi animali siano processati e segmentati secondo una precisa gerarchia di utilizzabilità, dall’altro che quegli stessi corpi continuino a «rappresentare» come materia prima totalmente animata/annientata dal prodigio tecnologico. In questa doppia messa a morte i corpi animali rendono fino all’osso nell’uso e nello scambio finché, in un processo di cannibalizzazione reciproca, uso e scambio risultano inscindibili – ancora di più oggi, nel tempo in cui la vita è diventata l’ultima frontiera di espansione del biocapitale.

Nel rapporto con il corpo animale, il processo industriale del rendering è doppiamente naturalizzato: nel tempo, perché la sua epica prende le mosse da reperti neolitici che dimostrano l’impiego già allora di colle animali per impermeabilizzare ceste e contenitori, e nello spazio, quando se ne esotizza la conoscenza e la pratica tra le tribù delle popolazioni native americane. In questo modo la natura che il corpo animale rappresenta è sospinta verso il capitale in un eterno ritorno della resa, protagonista, non a caso, anche della recente narrazione ecologica del rendering environmental friendly, che non solo occulta ma capovolge di segno i costi ecologici di questi processi (come la produzione di biocarburanti) che si fondano sul rendering animale. Come sineddoche del tecno-biocapitalismo, il rendering si nutre del dualismo tra natura e tecnocrazia. In questo modo, il corpo animale, che della natura è reso parte, è privato dei mezzi ma può sempre farsi medium esso stesso.

DAL FOTOFUCILE al nastro trasportatore, il corpo animale si rende garanzia di un’economia del movimento di cui mai potrà godere: persino il macello può farsi dispositivo proto- o para-cinematografico (come dimostrano i tour di un tempo sulle passerelle dei mattatoi di Chicago o le attuali gite scolastiche nelle fattorie della carne felice), in cui convergono consumo materiale e consumo spettacolare. I casi di studio proposti da Shukin sono molti, ma tutti accomunati dalla capacità dei processi ri/produttivi di smembrare e dematerializzare i corpi; rendendoli merci da consumare e oggetti disponibili alla resa di una rappresentazione mimetica, essa ci restituisce una visione distorta, indolore e edulcorata di quegli stessi processi materiali che in tal modo vengono giustificati e invisibilizzati e, in quanto tali, messi in grado di rilanciare la mimesi simbolica che a sua volta li ri/ produce. Alla fine, chi si ricorda delle rane vivisezionate da Galvani quando accende una lampadina? Chi, gelatina rosa della fabbrica o gelatina grigia del cognitariato, si ricorda, quando guarda un film, che le pellicole, prima del rendering digitale, erano fatte di gelatina spremuta dalla carne animale? Chi si ricorda, quando scrive al computer, che i suoi segni digitali grondano letteralmente coltan e sangue?

Un esempio quanto mai attuale di rendering, tragico e nostrano, è quello che coinvolge l’incolpevole orsa Jj4, recentemente condannata alla pena capitale per aver ucciso l’altrettanto incolpevole Andrea Papi. Il progetto bio/necro/ politico Life Ursus, in cui si inserisce la vicenda, aveva per scopo la reintroduzione degli orsi nelle Alpi trentine ed è stato reso possibile anche dalla rappresentazione degli orsi e delle orse come monadi prive di relazioni ecologiche, quindi dislocabili a piacimento, come inoffensivi peluche utili a rivitalizzare l’industria turistica trentina – un novello giardino dell’Eden da cui l’immenso sfruttamento animale che la sostiene magicamente scompare.

MA GLI ORSI, SI SA, sono grandi carnivori e gli incontri con loro possono essere letali. Ed è qui che il rendering entra di nuovo in azione: gli orsi e le orse sono adesso problematici, e come tali abbattibili, il che da un lato riproduce simbolicamente la supremazia dell’umano e dall’altro rimette in moto la ri/produzione materiale dell’industria turistica e venatoria, attivando ricorsivamente il circolo vizioso di cui si è già detto.
La potenza dell’analisi articolatoria di Shukin è più che mai evidente nell’inquietante attualità del Post scriptum, redatto circa dieci anni prima della pandemia da Sars-Cov-2. Le pandemie zoonotiche – ci ricorda (o anticipa?) Shukin – sono il prodotto più cupo del capitale animale. Se gli eventi pandemici mettono in luce la permeabilità del confine umano/ animale, allo stesso modo sono occasioni in cui questo confine viene saldamente richiuso per garantire la salute di un certo tipo di umano a discapito di altr* animali e di altr* animalizzati. Le parentele interspecie, allora, possono essere alternativamente condannate attraverso la patologizzazione della promiscuità, epitomizzata dalla narrazione intorno ai wet market cinesi, oppure feticizzate in un’estetica che rimuove conflitti e corpi reali per sancire la naturale inevitabilità della visione (neo)colonialista e delle sue strategie di oppressione.

PARTICOLARMENTE interessante, a questo proposito, è la narrazione di Shukin del «segmento etnico» del capitale animale che, con l’avvallo della «scienza», ha reso untori responsabili dell’epidemia della mucca pazza i raccoglitori indiani di ossa da esportare in Occidente, attribuendo l’origine dell’epidemia alle acque contaminate del Gange piuttosto che al cannibalismo dell’industria della carne.
Shukin declina la sua critica radicale al capitale animale nel contesto degli studi culturali transnazionali di matrice britannica, che però piega verso i critical animal studies. Degli studi culturali, la teorica canadese condivide la prospettiva post-marxista e post-strutturalista, che segue il lavorio combinato di struttura (processi materiali) e sovrastruttura (ideologia e rappresentazioni), viste come consustanziali e inscindibili, e la convertibilità delle forme di capitale animale nel «continuum biologico cui il biopotere si rivolge».
L’antispecismo di Shukin è un pensieroprassi che non cessa di mettere in scacco sia l’occultamento umano-troppo-umano degli spettri animali sia il cripto-spiritualismo che, con acume, rintraccia in chi continua a sottrarre a questi spettri la materialità del corpo che dunque sono.

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SCHEDA. L’attesa traduzione di un testo politico

«Capitale animale», di Nicole Shukin, nella traduzione italiana di Bianca Nogara Notarianni, sarà disponibile da domani in libreria per le edizioni Tamu. La cura è di Massimo Filippi e Federica Timeto e in questa pagina leggete lo stralcio tratto dalla prefazione a loro firma.
Nicole Shukin è professoressa associata presso il dipartimento di Inglese all’Università di Victoria, in Canada. Le sue ricerche si pongono all’intersezione tra gli studi culturali e le teorie post-marxiste, post-strutturaliste e postumane, mirando a rintracciare i segni dell’agency e della resistenza animale nel delirio capitalista.

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