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Lo scultore che viveva tra le barene

Lo scultore che viveva tra le barene – Foto Alfio Beriotto

Percorsi d'arte Una visita alla casa-museo di Burano dove lavorò Remigio Barbaro, un luogo di passaggio per molti ospiti occasionali, tra cui Arturo Martini e anche Hemingway

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 11 novembre 2017

Da decenni, è un luogo che rappresenta una sorta di wunderkammer dell’arte, un posto che ha attirato molti intellettuali e artisti di tutta un’epoca. Hemingway, Diego Valeri, il trevigiano Arturo Martini e i moltissimi altri che, di passaggio sull’isola, non hanno potuto rinunciare a incontrarlo sorseggiando il suo cocktail Martini. È la casa studio in cui Remigio Barbaro da Burano ha vissuto prima da solo fin dal 1946, e poi con la moglie Giovannina. Il luogo dove lui lavorava, modellando le crete, mentre per fondere andava a Treviso.
La nipote Maria Teresa Grison lo ricorda come un tipo particolare, con il quale era piacevole stare, che raccontava un sacco di cose e sapeva parlare di arte anche a lei, che era bambina. Si era formato all’Accademia di belle arti di Venezia, dove aveva insegnato pure per qualche semestre, ma alla fine aveva scelto di ritornare nella sua Burano, negandosi persino a una cattedra a New York. Con la moglie Giovannina, morta prima di lui nel 1997, conduceva una vita normalissima, francescana. Una vita che si specchia nell’arte di Barbaro che, in buona parte, è a soggetto religioso. Per casa, racconta la nipote, circolava sempre qualcuno, ospiti di passaggio. Isolani, adulti e bambini, e artisti che lo venivano a trovare, come Hemingway, conosciuto tramite Giuseppe Cipriani. O Peggy Guggenheim, con qualche suo cane.

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Disperazione e ricami
Frugando nei suoi ricordi di ragazzina, Maria Teresa Grison narra di quando il parroco veniva a benedire la casetta su due piani, e Remigio, per non offendere la sensibilità del prelato, rivestiva le statue dei suoi nudi. Lo rammenta uomo impermeabile alle critiche e sempre deciso a continuare sulla strada artistica intrapresa. A volte, scelte faticose lo fecero precipitare nella disperazione, come quando la Biennale gli rifiutò un’opera. Cocente fu la delusione, e la depressione gli fece sfiorare il suicidio. Ne uscì grazie al sostegno di Giovannina, che arrotondava ricamando il merletto al tombolo. Alla quale, grato, dedicò il piccolo bozzetto La moglie dell’artista, ritraendola mentre lo regge in spalla. Che nel museo immaginario che poco a poco andava costruendo ha voluto collocare in camera da letto, al primo piano.
Perfino nel testamento Remigio Barbaro, che per i suoi compaesani era «il professore», ritorna con il proposito che la sua casa studio dovesse aprirsi al pubblico. E ora la dimora di Barbaro, dopo il restauro del 2012, è visitabile su prenotazione. Anche se solo per piccoli gruppi, per l’angustia degli spazi e per non rompere l’incanto. «Remigio – racconta Tobia Bressanello architetto suo compaesano – aveva la passione di raccogliere tutto, anche acquistando oggetti che poi, di volta in volta, distribuiva secondo un criterio che nulla aveva a che fare col caso. E dove una cosa richiamava l’altra. Ogni pezzo in arrivo aveva già una sua precisa posizion e, e andava a costituire un anello di una teoria di ricordi che lo collocano nella storia della scuola di Burano». Lontane vicende di pittori che da inizio ’800 trovarono un’oasi di pace nell’isola. E che nel ’900 Barbaro ebbe occasione di conoscere e frequentare tutti. I Vellani Marchi, i De Pisis. Lo stesso Arturo Martini accompagnato in isola da Gino Rossi. E appunto Pericle Fazzini. E tanti, tantissimi altri. Rapporto difficile quello di Barbaro con Fazzini, dal quale sosteneva di essere stato spesso maltrattato. Non buoni in genere erano anche i suoi rapporti con quei colleghi che venivano da fuori, convinti di essere loro a portare a Burano la luce, la cultura e l’arte, e che erano poco disposti a pensare che tra le barene potesse vivere, per quanto in quel modo frugale, un vero artista.

Non buoni in genere erano anche i suoi rapporti con quei colleghi che venivano da fuori, convinti di essere loro a portare a Burano la luce, la cultura e l’arte, e che erano poco disposti a pensare che tra le barene potesse vivere, per quanto in quel modo frugale, un vero artista.
Remigio era Remigio, questa è un po’ la convinzione di chi l’ha conosciuto. Non era un profeta in patria, come tutti del resto. Era un burbero che non si piegava, un puro al quale bastava un pezzo di pane con acqua per vivere libero coltivando il suo spirito di francescano. Ospitale a tal punto da non far mancare mai nella credenza di legno della cucina la bottiglia di Martini con cui preparava il cocktail secondo i dettami dell’amico barman Giuseppe Cipriani, quello dell’Harry’s Bar di Venezia.

Il tempo inaffidabile
«Era così contento di ricevere gente – ricorda Bressanello che ne deve aver fatto personalmente l’esperienza – che era capace di offrirtelo anche alle otto del mattino». Come i vecchi di un tempo, Barbaro, caldo o freddo che fosse, usciva in tutte le stagioni con un’eterna giacca di velluto. Intento a scolpire al cimitero di Mestre, per non staccarsi dal lavoro e per non perdere tempo prezioso, dormiva le sue notti dentro un loculo non ancora occupato. Artista inaffidabile per quanto riguarda i tempi di consegna, ha passato la sua esistenza in una casa di un’apparente e inconcepibile confusione tra oggetti affiancati e affastellati, offrendo alla nostra lettura la stratigrafia degli intimi percorsi della sua anima. Rischiando a ogni passo di smarrirci. Con quei messaggi di lancinante disperazione che provengono da quelle sue statue che spesso sembrano implorare il cielo, fa sentire la tragedia del destino comune. E vana la ricerca di quella pace che, a giudicare da certe opere, nemmeno la sua profonda fede di laico francescano ha saputo garantirgli.

Rossanda in visita
A Remigio Barbaro, lui vivente, Burano ha anni addietro finalmente tributato un omaggio esponendo permanentemente due sue opere in aree pubbliche. Lui che è stato espressione di un borgo di umili pescatori e artista di levatura europea che coscientemente ha rifiutato fama e onori per non lasciare il posto in cui era nato. Anche una Rossana Rossanda diciannovenne ebbe occasione di fare una visita a Burano nell’agosto del ’43, e ne fu a tal punto colpita da inviare a Barbaro una lettera in cui coglieva i tratti fondamentali della sua figura di artista e di uomo. «È stata una volata in tutta fretta – scriveva Rossanda nella sua lettera – ma che ci ha fatto entrare per un momento in un mondo quasi magico… quelle vostre bellissime stanze, coi pochi mobili intagliati, e le vostre sculture…. Così mi è venuto in mente che forse avreste gradito …. gli auguri di chi vi è grata di averle fatto intravedere un pezzetto della vostra vita. Che spero avete difesa da tutto questo disastro di uomini e cose: credo che sia un dovere».
Era la fine del buio 1943. Ora Remigio Barbaro, chiusa la sua esistenza quasi centenaria da buranello, dal 2005 riposa nella sua tomba francescana nel cimitero dell’isola. Tra le sue adorate barene.

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