Lo scrittore libertino sintonizzato sui miti del kitsch
Ritratti Addio a Gillo Dorfles, il critico e pittore che osservò sotto la sua lente spregiudicata diversi linguaggi, dall'arte al cinema, dalla tv ai fumetti. E non disdegnò di avventurarsi lungo le sponde del cattivo gusto
Ritratti Addio a Gillo Dorfles, il critico e pittore che osservò sotto la sua lente spregiudicata diversi linguaggi, dall'arte al cinema, dalla tv ai fumetti. E non disdegnò di avventurarsi lungo le sponde del cattivo gusto
«Ho sempre creduto che non si debba mai circoscrivere il proprio interesse a un unico linguaggio artistico, trascurando gli altri e creando delle paratie stagno tra le diverse arti, se si vuole avere una visione globale ed equilibrata della situazione artistica contemporanea». Queste parole scritte nel 1979 nell’introduzione del suo L’intervallo perduto (Einaudi) hanno costituito il timone di tutta la produzione di Gillo Dorfles, studioso di estetica, di arte, o meglio delle arti, produzione avviata nel 1951 e protrattasi a lungo come la sua vita fino al 2017 e oltre.
LA SCOMPARSA di Dorfles, all’anagrafe Angelo Eugenio, nato a Trieste il 14 aprile 1910, priva il mondo dell’arte di una voce fondamentale nell’ambito degli studi e delle analisi delle produzioni artistiche (e non solo) e culturali del nostro tempo. Scorrendo, infatti, l’elenco delle sue pubblicazioni da Discorso tecnico delle arti del 1951 a La logica dell’approssimazione, nell’arte e nella vita del 2016, anno in cui è uscito anche il ponderoso Arte senza dialettica. Scritti dal 1933 al 2014 di duemila pagine (e in un’intervista da lui stesso stigmatizzato come «troppo grosso»), si comprende quanto Dorfles abbia arricchito gli studi di estetica e sociologia di argomenti mal noti o poco studiati fino all’uscita dei suoi volumi. Mi riferisco in primis al Kitsch, tema considerato nel capitolo «Kitsch e cultura» del suo Nuovi riti e nuovi miti (Einaudi, 1965), assieme a capitoli su tradizione e metamorfosi, sui valori ideologici e ludici della cultura di massa, sulla pop art, sulla fantascienza, sui feticci della parola, sulla civiltà del consumo e dell’immagine.
APPENA TRE ANNI DOPO vi è tornato, curando per Gabriele Mazzotta editore Il Kitsch, antologia del cattivo gusto, nel quale ha coinvolto molti altri autori sia italiani, come Ugo Volli e Vittorio Gregotti, che stranieri, tra cui Hermann Broch e Clement Greenberg, volume che, oltre nell’arte, trattava il Kitsch nella famiglia (nascita e morte), nella politica, nella pubblicità, nel cinema, nell’architettura, nella morale e nella religione.
Nella sua lunga e intensa attività di studioso, critico, saggista socio-antropologico, Dorfles, tramite le sue puntualizzazioni sul gusto estetico e le analisi di fenomenologia riferite alle diverse arti nei volumi Le oscillazioni del gusto (1958), Il divenire delle arti (1959), Il divenire della critica (1976), ha dato una sferzata vigorosa alla trattatistica estetica e culturale, introducendo nell’Italia del Novecento nuove tematiche atte a modernizzare il pensiero degli studiosi italiani. Conoscendo l’inglese, egli ha potuto ampliare gli orizzonti della sua ricerca attraverso la bibliografia d’oltreoceano e, insegnando nell’Università di Trieste, mitteleuropea. Basterebbe, per rendersene conto, scorrere le circa quattro pagine di bibliografia del suo Il disegno industriale e la sua estetica (Cappelli, Bologna, 1963), altro volume con cui è riuscito a fornire una unitaria sistematizzazione dei vari aspetti dell’industrial design, per lo più studiati settorialmente in Italia.
DOTATO DI UNA CURIOSITÀ irrefrenabile, ha amato mettere sotto la sua lente di «fenomenologo del gusto», come amava definirsi, tutte le espressioni d’arte, dalla architettura alla pittura, che ha praticato, dalla musica alla danza, dal cinema alla televisione, dalla poesia e narrativa alla fantascienza e al fumetto, sempre analizzandone i vari aspetti di cultura, di moda e di cattivo gusto, quindi non trascurando i sostrati ideologici, la cultura di massa, le interferenze tra lingua parlata e pensiero, la contrapposizione del multiplo e dell’unicum, il «gergo» pubblicitario, le trasformazioni linguistiche, le differenze tra natura e artificio, il consumismo, i risvolti ludici, l’obsolescenza e naturalmente i diversi aspetti della comunicazione, sempre con una scrittura chiara e semplice, anche quando introduceva termini particolari, di cui spiegava il significato.
A TESTIMONIARNE l’apprezzamento che godeva basterebbe notare quanti importanti e diversi editori pubblicarono i suoi scritti. Tra essi è Feltrinelli, che nel 1961 dette alle stampe Ultime tendenze dell’arte d’oggi in ben 25.000 copie, edizione esaurita per cui altre ne furono pubblicate fino a quella aggiornata e ampliata del 2004.
PER LE SUE SCORRIBANDE sui versanti più disparati della produzione artistica e delle espressioni del vivere sociale il pittore e acuto intellettuale Emilio Tadini ebbe a definirlo «uno scrittore libertino – proprio nel senso che la parola ha al suo nascere». Il volume autobiografico Paesaggi e personaggi, edito da Bompiani nel 2017, restituisce in parte la ricchezza della sua vita e attività, nella quale ha sempre dipinto, come documenta il Catalogo ragionato delle opere di Gillo Dorfles, pubblicato nel 2010 da Luigi Sansone con l’editore Mazzotta. Tuttavia nella pittura egli non è stato altrettanto importante come studioso di arte, e altri ambiti, con aperture che per certi versi potrebbe farlo accostare a Marshall McLuhan.
STRENUO AVVERSARIO di ogni linguaggio iconico, convinto com’era che esso non fosse più consono ai nostri tempi, egli è diventato il teorico del Movimento Arte Concreta, fondato da Gianni Monnet con Munari, Soldati e lo stesso Dorfles nel dicembre 1948 con la mostra alla Libreria Salto di Milano.
TUTTAVIA LA PITTURA di Dorfles, per la sua convinzione che essa non dovesse «ridursi a mero gioco geometrico colorato» ovvero essere «un paravento atto a mascherare un’assenza di qualità creative», fu totalmente eterodossa rispetto al «credo» concretista di Radice, Soldati, Reggiani, Mazzon e di altri astratto-geometrici del M.A.C.
Ovviamente a un attento studioso della produzione artistica contemporanea come lui non poteva sfuggire l’assurdità di continuare a considerare il «bello» una categoria distintiva dell’arte del suo tempo. Ed è appunto nel testo Dall’arte povera al kitsch, contenuto nel volume Senso e insensatezza nell’arte d’oggi (Ellegi edizioni, Roma 1971), egli giustamente asserì che in essa «lo stesso aggettivo di ‘bello’ cade in disuso e… perde ogni diritto di cittadinanza». Come anche chi scrive da decenni va sostenendo, purtroppo con scarso successo, nonostante i comprovati esempi addotti.
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