Invece della tunica, don Cesare entrava a scuola con addosso abiti démodé: camicia spessa di flanella nei calzoni alti fino al petto, impermeabile verdone lunghissimo e scarponi anfibi che risalivano alla guerra in Africa. Poi da congedato, ancora giovanissimo, la conversione. La centrale del liceo scientifico statale aveva deficit di aule e la 1^ della sezione E, fresca d’istituzione, si trovò dislocata nel collegio religioso dove don Cesare, padre gesuita, insegnava matematica. Toscano di Pisa e studi alla Normale: oltre alla soluzione delle espressioni algebriche, durante le interrogazioni, gli premeva che si andasse preparati in Storia della matematica, appendice della materia, da lui liberamente introdotta nel programma scolastico.

Ottimo professore, ma esigente e con la destra lesta a stampare il cinque sul guancione dell’alunno impreparato. Di cinque, oltre all’impronta lasciata, non è che se ne vedessero altri sul registro.

Gli insegnanti, tutti, erano di voto stretto. Sulle pagelle del primo trimestre, specie in inglese e in latino, brillavano i due e i tre. In matematica il più basso era 4. Per don Cesare, con differente metro di valutazione, la seggiola rappresentava la bocciatura: castigare senza umiliare. In Toscana è d’uso dire seggiola invece di sedia, simboleggiata dal numero 4.

Mostrando la pagella, a casa, si faceva notare che fra i due e i tre svettava un dignitoso 4 in matematica perbacco. E sia allo scritto che all’orale. Non stavamo messi proprio male, noi, se ai compiti in classe e alle interrogazioni alla lavagna veleggiavamo fra il 4 e mezzo e il 5 meno meno. Nel primo trimestre. Poi avremmo recuperato, magari col doposcuola, per essere rimandati a settembre con non più di due-tre materie.

Don Cesare, un omone, se ne veniva perennemente costipato portandosi lo sciroppo contro la tosse. Tanto tossiva, fra una spiegazione e un’interrogazione, tanto si attaccava direttamente al mezzo litro di vetro scuro privo di etichetta. Che tirava fuori da una borsa sdrucita di vera pelle, cosparsa di macchie untuose, che teneva con sé anche quando usciva dall’aula nell’intervallo. Che razza di sciroppo era? Un medicinale miracoloso, assicurava, che gli faceva calmare istantaneamente la tosse.

Guai al malcapitato che interrogava vicino alla cattedra, dove sedeva, appena calmatasi la tosse: sarebbe stato investito da un tanfo disgustoso di vinaccia fermentata. Quello che definiva sciroppo, e chissà da quanto ne abusava, lo condusse alla rovina nello stesso anno: la cirrosi per alcolismo progrediva. A fine annata, usciti gli scrutini, ci dette appuntamento per settembre: anche la matematica fra le materie da riparare. Le scuole riaprivano tutte il 1° ottobre, da nord a sud, e qualche giorno prima lo rivedemmo spaventosamente rimpicciolito