Perché i due maggiori quotidiani di lingua inglese – il New York Times e il Guardian – hanno pubblicato quasi in contemporanea (rispettivamente il 10 e il 9 novembre) due lunghi articoli su Andrew Wylie, l’agente letterario più famoso del mondo, la cui chilometrica lista di clienti vivi e trapassati include Calvino, Camus, Bob Dylan e Sally Rooney? A cosa si deve – in assenza di anniversari o di grandi novità – questa attenzione nei confronti dello «sciacallo» che con la sua politica predatoria (da qui il soprannome) ha influito parecchio sul sistema dell’editoria mondiale negli ultimi trent’anni? Se un motivo c’è, non lo sappiamo, ma i due articoli – l’intervista di Wylie a David Marchese sul Nyt e il ritratto di Alex Blasdel sul Guardian (un long read di una quindicina di cartelle) – sono interessanti anche senza gli esercizi di dietrologia che il personaggio impone.

Intanto, la prima lezione è che oggi come ieri «nascere bene» – vale a dire in una famiglia progressista, colta e benestante, incline a sorvolare sugli errori di gioventù – conta assai per fare strada. Accidentatissimi, infatti, gli inizi di Wylie: adolescente ribelle, cacciato da scuola, ricoverato per nove mesi in una clinica psichiatrica, in seguito figura di contorno nella cerchia di Andy Warhol con annesso triennio sotto anfetamine e sostanze varie (sei ore di sonno a settimana, «buona parte dei soldi di famiglia finiti in vena»).
Al compimento dei fatidici trentatré anni, arriva il tempo della «redenzione»: nel 1980, con diecimila dollari prestati dalla madre, si inaugura The Wylie Agency, e la storia successiva la conosciamo, anche se gli articoli di Marchese e Blasdel aggiungono particolari utili per capire meglio il personaggio e il suo successo. Per esempio, ma non ce ne stupiamo più di tanto, veniamo a sapere che lo «sciacallo» è riuscito a conquistare molti autori famosi sorprendendoli con gesti stravaganti: fra «gli elementi canonici dei rituali di accoppiamento di Wylie», come li definisce Blasdel, si contano declamazioni a memoria di esametri dattilici e complicate triangolazioni fra clienti (per dire: di fronte all’iniziale rifiuto di Salman Rushdie, l’astuto agente ha invitato Benazir Bhutto, a quel tempo premier del Pakistan, a far parte della sua scuderia: lei ha detto di no, ma Rushdie ha capitolato).

Né sorprende che l’agenzia mandi regolarmente in giro per il mondo i suoi emissari a visitare le case editrici, parlando con gli editor e fotografando gli edifici, secondo metodi simili a quelli in uso alla Cia, istituzione cui Wylie dichiaratamente si ispira: «Penso ci sia molto da imparare su come funzionano le cose a livello politico e su come si fanno i calcoli strategici». Non a caso, per alcuni mercati, Wylie – scrive Blasdel – «si fa consigliare dai membri del prestigioso Council on Foreign Relations, di cui è anche membro».
Più inaspettata è la fermezza con cui lo «sciacallo», parlando con Marchese, si definisce «una persona vuota»: «Sento di non avere una mia personalità, e forse è per questo che sono un agente così impegnato! Uno scrittore arriva con una personalità e una serie di convinzioni completamente formate, espresse con forza, e io sono talmente rapito dai loro interessi, dalle loro conoscenze e dai loro mezzi espressivi che nulla può distrarmi».
Difficile sapere se sia la verità o l’astuzia di un dissimulatore più o meno onesto. Certo invece che su alcuni punti Wylie ha le idee chiare: in particolare, che «la classifica dei best-seller è un esempio di successo e di conquista del più ampio pubblico possibile. Ma chi sono i lettori? Un mucchio di tizi ottusi e privi di istruzione. Avete voglia di passare la giornata con loro? Io no, grazie».