Il Consiglio regionale della Campania, giovedì, ha varato le «Disposizioni in materia di semplificazione edilizia, di rigenerazione urbana e per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente». Di fatto il via libera a un nuovo ciclo del cemento. «Il provvedimento si presenta come una istituzionalizzazione perenne del Piano casa» spiega Alessandro Dal Piaz, esperto in Progettazione urbanistica.

Quali sono i problemi che pone la norma?
La preoccupazione maggiore, come dimostra l’appello degli scienziati, dovrebbe essere intervenire per fermare la crisi climatica. Una situazione che richiederebbe un’attenta politica di contrasto al consumo di suolo. Invece rigenerazione urbana e riqualificazione diventano puro alibi per giustificare un sistematico e a tempo indeterminato incremento dei volumi del patrimonio edilizio. Certo, c’è un articolo in cui si elencano le situazioni in cui queste incentivazioni non sono ammesse, ma sono veramente situazioni di tutta evidenza: le aree pericolose per frane e alluvioni, i centri storici, l’edilizia abusiva non condonata.

Cosa permette la legge?
In sostanza si consente di incrementare i volumi nelle ristrutturazioni fino a un quinto dell’esistente e, nel caso di demolizioni e ricostruzioni, addirittura di più di un terzo dell’esistente. Inoltre, l’aumento dei volumi edilizi si giustifica con l’alibi della conservazione del suolo non artificializzato ma in realtà per i fabbricati dismessi industriali, commerciali, infrastrutturali e altri si consente di incrementare i volumi del 20% e, se è disponibile un’area diversa, si ammette il trasferimento del volume maggiorato in questo sito. Quindi se, ad esempio, il proprietario di un’industria dimessa ha un suolo in aperta campagna si ammette il trasferimento su suolo agricolo. Alla faccia dello stop al consumo di suolo.

Non è la prima volta che la giunta De Luca prova a forzare su questi temi. A febbraio c’è stato uno scontro tra il governatore e il ministro Franceschini, dopo il parere negativo del Mic sulla legge regionale 31/21 relativa alla semplificazione di alcune norme sul paesaggio.
La regione sosteneva di avere ottemperato ai rilievi del ministero dichiarando il rispetto dei piani paesaggistici esistenti ma la preoccupazione del Ministero era che, in assenza del piano paesaggistico regionale, la facoltà di incrementare le costruzioni potesse determinare un contrasto con vincoli non ancora introdotti. Si spera che il ministero, anche per affetto dell’ultima norma varata, si renda conto che il paesaggio è messo a rischio e impugni questa legge. Il governo lo può fare perché l’esercizio delle competenze esclusive dello Stato per la tutela del paesaggio e dell’ambiente sono più che ordinarie e quindi esercitabili anche nel periodo degli «affari correnti».

Quali territori subiranno gli effetti della legge?
Il testo cita il piano urbanistico territoriale della Penisola sorrentino amalfinatana e gli altri piani paesaggistici esistenti. Dove ci sono, non dovrebbero esserci gravi danni. Il problema è che esistono solo per aree ristrette, ancorché di pregio, che la legge Galasso a suo tempo vincolò con i cosiddetti «galassini»: ad esempio il Matese, il Taburno (ma non per intero). Ci sono tuttavia vaste zone scoperte come la piana del Sele, l’alta valle del Volturno, territori che dal punto di vista ambientale e paesaggistico sono di estrema delicatezza e grande qualità ma non hanno il piano a tutelarle. Queste operazioni di demolizione e ricostruzione o trasferimento di volumi sono largamente praticabili su queste aree. Ischia e Capri hanno il piano, fatto dal ministero dei Beni culturali; Procida ne ha uno fatto in precedenza, piuttosto debole dal punto di vista della normativa perché stabilisce un indice di edificabilità superiore da per tutto a quello delle zone agricole, difatti hanno costruito anche in quelle zone in modo piuttosto consistente. La Campania è molto grande e di territori di valore ambientale ce ne sono molti non protetti da vincoli.

Il Piano paesistico regionale non c’è, è previsto dal Codice dei Beni culturali del 2004.
Il problema, nelle dichiarazioni ufficiali della regione, sta nelle difficoltà amministrative e burocratiche poste dal ministero. Sulla base di alcuni documenti della regione, credo che il problema sia l’interpretazione che la Campania fa del nuovo piano come uno strumento di valorizzazione del territorio con riferimenti ai piani urbanistici comunali e le progettazioni di carattere operativo. Invece che un piano di tutela, secondo la regione è un piano di riprogettazione e trasformazione edificatoria. Questa la radice del contrasto. Il ministero, invece, lo interpreta come un piano di tutela e conservazione. La sua mancata approvazione è un pericolo per il paesaggio e indizio di un’interpretazione tendenziosa del piano, che non corrisponde al Testo unico sul Paesaggio.

Mano libera al cemento e il progetto di una nuova torre di oltre 80 metri accanto alla Stazione centrale di Napoli per gli uffici della regione.
All’origine di tutto questo c’è l’interpretazione del territorio come supporto a costruzioni che producano rendita. È il peccato originale. Questa logica prelude alla densificazione edilizia nelle aree più appetibili. Quello che si propone, tra porto e stazione, è un’inutile opera pubblica quando si potrebbe utilizzare meglio il Centro direzionale, che si sta svuotando. Non c’è, invece, nessun provvedimento per l’edilizia pubblica, scomparsa dall’orizzonte, e per l’edilizia sociale si fa molto poco.