Visioni

Lo scatto complice di Albert Watson

Lo scatto complice di Albert WatsonAlfred Hitchcock, scatto di Albert Watson del 1973

Fotografia Ritratti di Hitchcock, Bowie, Jagger, Thurman e non solo raccolti in una mostra antologica da Camera Work a Berlino

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 17 gennaio 2020

Oca, tacchino o cappone (rigorosamente al forno): la tavola natalizia è legata alla tradizione, si sa. Anche Alfred Hitchcok che era notoriamente più che una buona forchetta («il cinema non è un pezzo di vita, è un pezzo di torta» è una delle sue frasi celebri) aveva una ricetta speciale che condivise con i lettori dell’edizione del Natale 1973 di Harper’s Bazaar: sua moglie Alma Reville, tra l’altro, era una cuoca raffinata e nel libro Alma Hitchcock: The Woman Behind the Man, scritto dalla figlia Pat Hitchcock, sono riportate altre ricette particolarmente amate dal regista. Per il ritratto fotografico che accompagnava l’articolo fu chiamato Albert Watson (Edimburgo 1942, risiede e lavora a New York) che allora viveva a Los Angeles. Secondo una metodologia che è diventata una caratteristica fondamentale del suo modus operandi, Watson che era al suo primo incarico professionale di un certo spessore, prima di trovarsi di fronte al celebre personaggio ne approfondì la conoscenza documentandosi sui diversi aspetti della personalità e, naturalmente, vedendo i suoi film.
Ritrarre il regista-gourmet dietro la tavola imbandita sarebbe stato noioso e prevedibile, perciò il fotografo scozzese ebbe l’intuizione di mettere nelle mani di Hitchcock un’oca spennata con un collare di evidente citazione natalizia. Un’idea che piacque a Hitchcock che, con tanto di papillon, appare a suo agio nell’interpretazione di se stesso tra il compiaciuto e il divertito. La sequenza di nove scatti in bianco e nero – esposta in occasione della mostra da Camera Work a Berlino (fino al 18 gennaio) e precedentemente nell’ultima edizione dei festival Kyotographie e Tokyographie – mostra proprio una varietà di espressioni nel volto dell’uomo, enfatizzate dalla gestualità della sua mano sinistra che creano un cortocircuito con la staticità del corpo del volatile.

FOTOGRAFIE che sono il manifesto della complicità tra soggetto e fotografo. Watson ha saputo cogliere l’eccezionalità dell’incontro guardando al di là dell’imminenza del presente. Sia che si tratti dei ritratti delle «celebrities» come David Bowie a Jack Nicholson, Kate Moss, Mick Jagger, Michael Jackson, Uma Thurman (è firmato da Watson il suo ritratto nel manifesto del film Kill Bill), Andy Warhol, Grace Jones… così come dei paesaggi (tra questi i suggestivi panorami scozzesi di Ullinish Point, il deserto del Mojave intorno a Las Vegas e quello del New Mexico), resiste sempre la vibrazione di un’impercettibile tensione emotiva imbrigliata all’interno di una scenografia costruita sull’essenzialità degli elementi. «Non fotografo solo bellezze e celebrità, anche galline e scimmie», ha affermato Watson in occasione del talk organizzato al Fujifilm Square di Tokyo, ricordando una lunga sessione trascorsa nel suo studio con un centinaio di polli (vivi) e l’allevatore: «una giornata molto divertente!». Anche gli oggetti trasmettono il fascino della personalità dell’individuo a cui sono appartenuti: Watson fotografa il guanto di Tutankhamon al Museo del Cairo e anche la giacca laminata d’oro di Elvis Presley a Graceland, nella casa-museo di Memphis.

PER L’AUTORE di centinaia di copertine di Vogue che in quarant’anni di attività è stato autore di servizi fotografici per testate come Time e Rolling Stone (il suo primo libro fotografico Mad Dog è del 1996, mentre KAOS, il più recente, è stato pubblicato da Taschen nel 2017) l’«idea semplice» è sempre quella che funziona meglio. Rispetto e gratitudine (ma anche spontaneità) sono fattori altrettanto importanti. «Soprattutto quando fotografo nudi sono grato con chi condivide con me il proprio corpo. Mi rivolgo con lo stesso rispetto alla persona che chiede l’elemosina in India o al re del Marocco, che pure ho fotografo come la regina d’Inghilterra». Un modo diretto, onesto e «simpatico» (Watson lo dice in italiano) – ovvero empatico – per entrare in relazione con l’altro. Lo sguardo del fotografo intercetta fragilità e lati psicologici più intimi, restituendoli in tutta la loro forza, con il supporto di una luce che non è mai aggressiva. A Steve Jobs, ritratto nel 2006, chiese di immaginare di essere di fronte a persone che non erano d’accordo con lui, sebbene lui fosse convinto di avere ragione. «È facile!», mi disse Steve Jobs – ricorda il fotografo – «È quello che mi succede sempre!». Invece a Sakamoto – uno scatto della serie è diventato la copertina di Beauty, ottavo album in studio da solista del musicista giapponese – suggerì un’immersione nella sua musica che ascoltavano durante la sessione fotografica. Il risultato è l’essenza di quell’armonia perfetta a cui allude il titolo stesso dell’album. Uno shhoting che si svolse in una manciata di ore, nello studio di Watson a New York. Entrambi, quello stesso giorno, sarebbero partiti per l’Europa.

MA NON SI ERANO detti la destinazione. La sera stessa, arrivato a Roma, il fotografo si recò a cena in un ristorante e, giocando sull’equilibrio della sedia su cui era seduto, urtò inavvertitamente quella della persona a cui dava le spalle. Si girò per scusarsi e… quella persona era Ryuichi Sakamoto! Anche coincidenze come questa – le causalità non casuali – per Watson sono ingredienti imprescindibili di una buona fotografia. Ma qual è la foto che Albert Watson farebbe, sapendo che si tratta della sua ultima fotografia? Un autoritratto. Nell’affermazione non c’è esitazione. Per il fotografo è certamente un modo per rileggere, attraverso il proprio volto, tanti momenti, tante storie vissute.

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