In L’identità culturale non esiste (Einaudi, pp.87, euro 12) il filosofo e sinologo François Jullien ci sprona a inquadrare le reali condizioni di possibilità del dialogo interculturale operando un deciso spostamento concettuale: dalla nozione di identità che conduce a una sterile contrapposizione, a quello di scarto che invece attiva una tensione feconda tra le culture permettendo di coglierne le rispettive risorse conoscitive.
Se la difesa dei valori favorisce un atteggiamento rivendicativo, le risorse non appartengono a nessuno di diritto, non possono essere esaltate o predicate. O decidiamo di servircene, o le ignoriamo abbandonandole a loro stesse. Come va intesa oggi, ad esempio, l’esigenza di universalità storicamente portata avanti dall’Europa? Denuncia soltanto l’etnocentrismo occidentale o si pone come ideale regolativo della ragione che fonda il piano dei diritti e la possibilità della vita in comune?

L’universale in senso stretto, quello che indica una necessità a priori, si distingue nettamente dal generale e dall’uniforme. Il primo ha carattere estensivo di constatazione empirica, ed è privo dunque di qualsivoglia dover-essere, il secondo rimane legato alla sfera della produzione ed è legittimato solo dalla comodità di un mercato globalizzato. Non sono quindi le somiglianze e le analogie a poter fondare il senso del comune. O meglio, non esiste nessuna «base comune» o «elemento minimo» di consenso che possa costituire una garanzia di mutuo riconoscimento e cura tra gli uomini. Il comune auspicato da Jullien non deriva quindi da un accordo stipulato a monte o a valle delle differenze, ma dalla disponibilità a schiudere le nostre prospettive, a renderle permeabili ad altre influenze senza rinunciare alle posizioni sostenute, ma smarcandoci dalla loro unilateralità.

Anche la politica della tolleranza e dell’integrazione si è dimostrata fallimentare in quanto priva di quello slancio innescato dalla dimensione immanente del tra, campo relazionale in cui l’incontro tra soggettività si trasforma in avvento inatteso di responsabilità e libertà condivise. Perché il tessuto sociale sia allo stesso tempo coeso e dinamico, avverte Jullien, bisogna sì appianare le diseguaglianze ma non riassorbire gli scarti che lo animano dall’interno creando possibilità di intersezione tra i sessi che ne alimentino curiosità e desiderio, capacità di comunicazione e bilanciamento tra le aspettative generazionali, di cooperazione tra le professioni, di arricchimento tra le regioni e gli ambienti.

Contro la falsa alternativa tra pigro relativismo e superficiale universalismo, Julien c’invita a battere una terza via che si declina nell’etica e nella prassi della traduzione. Via che non vuole promuovere un «cittadino del mondo» privo di connessioni e riferimenti particolari, ma un soggetto agile che imparerà a circolare tra le lingue e le culture sapendo attingere attentamente dalle une e dalle altre senza ridurle al collage di un sincretismo fai-da-te.