Lo scandalo di Ligia Lewis
Intervista Incontro con l'artista dominicana-americana di cui è visitabile in prima europea, a Roma, «A Plot, a Scandal»: al Mattatoio, fino al 16 luglio nell'ambito di Spazio Griot
Intervista Incontro con l'artista dominicana-americana di cui è visitabile in prima europea, a Roma, «A Plot, a Scandal»: al Mattatoio, fino al 16 luglio nell'ambito di Spazio Griot
«C’è sempre una trama che si sta svolgendo, tutto dipende dal lato della storia in cui ci si trova» ci racconta Ligia Lewis quando la incontriamo a Roma, al Mattatoio, dove fino al 16 luglio è visitabile in prima europea la sua installazione A Plot, a Scandal. A cura di Johanne Affricot e Eric Otieno Sumba, fa parte di Riverberi, il programma di Spazio Griot, realtà «nomade» – di cui fa parte anche un magazine – volta ad aprire squarci di visione, approfondimento e dialogo su e per le black arts.
Lewis è nata nella Repubblica Dominicana nel 1983, lavora tra gli Stati uniti e l’Europa e sperimenta la sua pratica, che fonde movimento e concetto, in diversi medium. «Personalmente, non sento un grande gap tra i corpi in movimento e le immagini in movimento. Vedo il video come una coreografia dell’immagine e non prediligo un mezzo o l’altro. Il punto è che per me la danza non si limita al corpo, è intrecciata all’immagine e a quello che vediamo. Per questo il linguaggio è molto importante. Non sono interessata ad un corpo che, semplicemente, si muove nello spazio: non mi dice nulla» ci racconta Lewis. A Plot, a Scandal, presentata la prima volta al Cara di New York in occasione della personale dell’artista, è un’opera che dispiega una riflessione sullo schiavismo come intimamente legato al concetto di proprietà, e dunque ancora vivo e vegeto nel nostro presente. È stata in parte girata a Santarcangelo: «Ero lì per il festival e mi aveva colpito l’aspetto gotico dei cipressi, i simboli storici di potere, come il campanile, il carattere medievale. Quale migliore scenografia per parlare dell’imposizione dell’Europa su altre parti del mondo?». Alla violenza fa però fronte una resistenza ostinata, e qui il centro diviene la terra d’origine dell’artista, il susseguirsi delle rivolte degli schiavi nei Paesi caraibici che vengono cadenzate dalle date in cui sono avvenute, fino alle tracce della memoria famigliare di Lewis attraverso l’esperienza della sua bisnonna, Lolón Zapata.
Può spiegare la relazione tra le parole «plot» e «scandal»?
Mi interessava dimostrare come alcuni dei nostri ideali, che magari diamo per acquisiti, ci tradiscono. Per me la proprietà rappresenta uno scandalo, nella sua concezione capitalista, strettamente legata al liberalismo occidentale che dà forma al mondo in cui viviamo ora. Un concetto che riguarda in maniera particolare noi che abbiamo avuto degli antenati che erano a tutti gli effetti delle «proprietà», degli schiavi. È questa condizione in cui si intrecciano vita, libertà e proprietà che ho approfondito rivolgendomi in particolare alla dottrina di John Locke e ai suoi Due trattati sul governo. Il contesto è quello dell’Inghilterra del XVII secolo, al picco della tratta degli schiavi con l’America. E Locke la conosceva bene perché ci guadagnava del denaro (possedeva azioni nella Royal African Company e la Bahama Adventurers company, dedite alla tratta, ndr). E come sappiamo, lui è considerato uno dei più grandi umanisti.
In inglese la parola «plot» ha tre significati: trama, complotto e pezzo di terra.
Esatto, tutti e tre sono legati alla difficoltà di raccontare le storie dei miei antenati, o del mio passato ancestrale, perché ci sono molti aspetti che mi sono oscuri, in parte per la violenza di chi ha accesso a questi archivi, a queste storie. Pensiamo spesso al genocidio come a un evento piuttosto che a un lungo processo; per me la tratta transatlantica degli schiavi è un genocidio a tutti gli effetti, ma non viene percepita così nonostante persistano gli effetti che produce, i suoi copioni mortali. Quindi è un processo non concluso, quello con cui dobbiamo avere a che fare. L’esigenza di girare A Plot, a Scandal è emersa dopo aver passato un periodo nel mio paese di origine, Dios Dirá, che ha una storia di marronaggio, di persone nere che sono fuggite dalla schiavitù. Ma oggi la Repubblica Dominicana, i Caraibi, sono un luogo turistico per gli europei-discendenti per fare le loro vacanze nei resort. Questo per dire quanto è complesso il fenomeno e come tutti siamo implicati nel capitalismo razziale.
Anche il concetto di «scandalo» è complesso: per lei è la proprietà ad incarnarlo, ma quanto la sua bisnonna ballava la danza Palo, ovvero il Vodoo domenicano, era considerata inaccettabile.
Sì, il Palo fu reso illegale da un governo avverso alle persone nere che era rappresentato da un dittatore nero, incredibile ma vero. Queste sono le complessità delle logiche che si impongono sui corpi. In ogni caso, fu proibita ogni tradizione africana, e la mia bisnonna praticava questa danza la notte, in delle feste che organizzava su questo plot inteso come pezzo di terra che le apparteneva ma che non era di sua proprietà nel senso moderno del termine. Penso che ci sia una traccia di Palo in me, ma non ho il pieno accesso alla pratica, e poi non sarebbe corretto performarlo di fronte ad occhi occidentali: se resiste ancora oggi è perché è rimasto nascosto. Queste tradizioni, queste danze, sono una traccia di marronaggio e resistenza e spesso venivano usate come preparazione alle rivolte. Anche il rivoluzionario cubano José Aponte era considerato scandaloso, e venne ucciso dal potere coloniale spagnolo. Un esempio di ciò che accade a chi vuole cambiare la «trama» dei padroni.
E la danza per lei può essere un modo per costruire spazi per altre narrazioni?
Non ne sono certa, non mi sento molto romantica rispetto all’idea di «altri spazi», preferisco affrontare le dure realtà in cui siamo immersi e processarle in maniera non ovvia, perché il potere è qualcosa che già tutti conosciamo molto bene, giusto? E tutti pensiamo di avere il linguaggio per parlarne, ma io credo che dobbiamo ancora lavorare per trovarlo. In questo senso uso la danza come un modo per trovare un altro linguaggio per descrivere ciò che per me è difficile da dire a parole. È come una tragedia comica, o qualcosa di allegramente orribile.
Quest’idea di «funny horror» c’è anche in «A Plot, a Scandal»: lei e Corey Scott-Gilbert vi rincorrete scherzosamente con le tipiche parrucche del ‘600, che rimandano a quel periodo cruciale per l’intreccio tra schiavitù e proprietà.
Per me lo humor e la tragedia sono prossimi in una maniera molto interessante. Cerco sempre un approccio giocoso perché la storia è così crudele, e continua ad esserlo, nonostante tutti lo sappiano; e il fatto che sembrerebbe impossibile il persistere di questa violenza che invece è realtà, mi spinge verso lo humor, che produce una tensione.
Lei lavora negli Stati uniti e in Europa. C’è abbastanza spazio per le black arts nei paesi occidentali?
In nessuno dei luoghi dove ho lavorato abbiamo lo spazio che meritiamo. C’è molto da fare.
È come se ci fosse ancora un muro invisibile?
In realtà è molto visibile, dipende da quali occhi hai.
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