Lo-fi, elogio dell’imperfetto
La musica, nella sua essenza più pura è suono, il quale non è però solamente il vettore delle note. Il suono, infatti, rappresenta un elemento complesso della musica, nel quale si intrecciano istanze culturali e politiche, sociali e funzionali e può rivelare motivazioni profondamente diverse, non solo dal punto di vista estetico e artistico, ma anche ideologico.
Bassa fedeltà. Musica lo-fi e fuga dal capitalismo è il libro pubblicato da Nero Editions nel quale l’autore Enrico Monacelli tratteggia il movimento musicale lo-fi, non solo come modo di produzione del suono, ma anche come forma di tattica di resistenza. La bassa fedeltà (lo-fidelity, lo-fi) è un modo di registrare e lavorare il suono usando anche quelle che nella norma sarebbero considerate imperfezioni. Rumori d’ambiente, fruscii, feedback ed errori di registrazione vari, vengono usati deliberatamente nella produzione di musica con il risultato di rendere il suono delle canzoni fangoso, torbido, sporco, ruvido. Per l’autore del libro, la bassa fedeltà costruisce un’estetica musicale sul sabotaggio, guardando dentro la musica con la volontà di esplorare e manipolare il suono per dargli una forma grezza e alternativa all’audio perfetto della musica commerciale. Mettendo le mani su cavi e corde e microfoni e nastri, la bassa fedeltà abbraccia l’imperfezione, il fruscio e si fa critica alla produzione lucida del suono della cultura capitalista.
DISORIENTAMENTO
Nel libro il primo impatto con la bassa fedeltà è disorientante. Monacelli, infatti, inizia il suo percorso dai Beach Boys, quelli che credevamo avessero inventato il suono dei surfisti biondi con gli occhi azzurri circondati da ragazze bionde baciate dal sole californiano. Quel sole californiano in realtà per Brian Wilson, fondatore della band, era diventato nero quando immerso fino ad affogare nei dettagli tecnici del processo di registrazione del suono in studio, era arrivato a toccarne i limiti angusti. L’industria chiedeva il suono perfetto per i dischi dei Beach Boys con lo scopo di farli rimanere gli dèi di quel pop baciato dal sole, ma per Wilson quel suono era sinonimo di morte. Fuggendo dalla ossessione per la qualità audio lucida e perfetta del pop, aveva scoperto il potenziale dei suoni di bassa qualità. Dopo aver imparato tutto sul sistema, insomma, aveva deciso di usare quello che sapeva per mettere in discussione il sistema stesso.
Enrico Monacelli tratteggia il lo-fi come pratica che trascende i confini dei generi musicali, come una politica sonora antitetica all’audio perfezionato del pop mainstream. Una scelta non solo estetica, ma anche politica che afferma un’azione di resistenza alla standardizzazione del suono della musica e più in generale alla società. Scorrendo le pagine del libro, la bassa fedeltà musicale non ci appare più autentica o spontanea di altre musiche (come verrebbe da pensare avendo a che fare con suoni poco lavorati), ma come un processo che richiede conoscenza e analisi critica della tecnica di registrazione audio per raggiungere una liberazione, una disinfestazione dall’estetica capitalista del suono.
Il potenziale riottoso della musica lo-fi risiede nella sua capacità di interrompere la disciplina del suono, di smontare il «si fa così» mettendo in discussione e superando le pratiche e le convenzioni stabilite dal pop parassitario, parafrasando Zygmunt Bauman, delle multinazionali discografiche. Rifiutandosi radicalmente di seguire le regole estetiche dell’industria culturale capitalista, la musica lo-fi mette in discussione le condizioni materiali che plasmano il processo di creazione culturale. Sceglie l’imperfetto, lo sbaglio, percorre il rumore di fondo abbracciandolo. Diventa una sorta di underground definitivo, un approccio che sfida tutte le leggi fondamentali della produzione di musica per il mercato di massa, ovverosia la pop music delle hit da classifica nelle quali ogni suono è al suo posto e ogni strumento è registrato e mixato in modo corretto.
LO STREAMING
Lontano dall’essere un libro antologico o compilativo, Bassa fedeltà ha il pregio di innescare una riflessione ampia sulla musica e sul suono che la musica ha in relazione al tempo nel quale è prodotta. Tempo sia politico che culturale. Più che un’enciclopedia del lo-fi è un racconto emotivo appoggiato a riferimenti politici e sociologici, tenuti insieme dalle riflessioni personali dell’autore. La ricchezza di spunti, riferimenti e intuizioni del libro porta a una superfetazione di riflessioni sull’uso del suono come fuga dal modo di produzione culturale dominante. La prima riflessione è sullo stato del suono nella musica mainstream contemporanea, alla luce dei cambiamenti radicali che ha subito dopo la sua smaterializzazione. Nell’era della musica piattaformizzata, gestita interamente dalle piattaforme di streaming, il suono del pop ha smesso di essere lo standard di riferimento, trasformandosi in funzionale alla nuova forma del mercato della musica. Il sistema più avanzato di distribuzione e ascolto di file audio, infatti, funziona grazie al sacrificio della qualità di ascolto, indispensabile per garantire il servizio promesso dalle piattaforme di streaming e cioè l’ascolto di any music, anytime, anywhere. Questo abbassamento della qualità audio è indispensabile per rendere i file più leggeri affinché il servizio di streaming sia disponibile sempre. Ma c’è dell’altro: la platform music impone parametri di produzione, come volume, suono, struttura e durata delle canzoni, che nessun artista deve obbligatoriamente rispettare, ma se non lo fa, gli algoritmi non performano al massimo e non generano stream. Così gli artisti, non avendo alternative, si stringono nei parametri delle piattaforme. Questa nuova bassa fedeltà funzionale all’ascolto della musica anche in condizioni di scarsa copertura della rete e imposta con tempi di produzione serratissimi e con i «suggerimenti» dalle piattaforme (anche attraverso software che analizzano i brani segnalando le modifiche di scrittura, struttura e suoni necessarie per aumentare la possibilità di successo) è una degradazione che il mercato compie ai danni della musica.
All’estremità opposta rispetto a questo suono degradato ma funzionale alle piattaforme, vive una produzione musicale che fa della ricerca progressista della massima qualità del suono il proprio motore. In quello che per comodità chiamiamo qui hi-fi (definizione che non ha alcun significato nella musica, ma che è utile per localizzare una scelta opposta a quella del lo-fi) l’uso della tecnica e delle possibilità delle macchine, dei software e degli strumenti è mirato a produrre il suono migliore per la musica dell’adesso. In un’azione accostabile a quel mettere le mani sugli strumenti musicali compiuta nella bassa fedeltà, l’iperproduzione del suono della musica supera le regole artistiche e politiche dell’audio, per portare il suono là dove nessun è mai arrivato prima. Come Brian Wilson, costretto nel pop solare dei Beach Boys era fuggito dal capitalismo grazie alla distruzione dell’estetica del suono perfetto, oggi la fuga dal suono lo-fi funzionale delle piattaforme, può avvenire attraverso la ricerca sfidante di un audio sempre più sorprendente, pulito, estremo e futuro che scavalca il suono funzionale.
UN NON GENERE
Monacelli nel libro spiega che il lo-fi non è un genere, perché di musica registrata male ce n’è di tutti i tipi, c’è del lo-fi in ogni tipo di musica. Quello che unisce ogni artista della bassa fedeltà è la volontà di confrontarsi con gli strumenti con cui si incide la musica, per farli lavorare in modo diverso. Questa volontà del lo-fi che mette in discussione il suono del mercato musicale appare identica, ma con risultati diametralmente opposti, a quella degli artisti dediti alla cura estrema del suono.
Quando il suono che il mercato impone alla musica diventa grossolano, la ricerca di un suono perfetto può diventare un gesto antagonista e ci sono degli ambiti sonori che proprio nella spinta verso la ricerca del suono nuovo, migliore hanno trovato la loro energia. L’elettronica, ma anche l’hip hop, la techno, la trap e parte del metal insieme ad altri ambiti sonori hanno fatto della ricerca del suono un elemento di sviluppo pur rimanendo per la gran parte fuori dalla fabbrica della produzione culturale. La techno è nata a Detroit nella cultura proletaria afroamericana, utilizzando le tecniche di produzione musicale più avanzate per creare il suono del futuro. Si poneva in radicale opposizione al capitalismo e al mercato, creando spazi sonori alternativi e fortemente controculturali. Spingeva verso il superamento se non l’azzeramento della musica già esistente attraverso la ricerca intransigente della qualità del suono. L’hip hop, altro suono nato nella cultura afroamericana, deve all’uso della tecnica del suono gran parte della propria identità. Grazie all’abuso del giradischi Technics e del campionatore è germogliata la cultura hip hop, dalla quale è fiorito il rap. Anche la musica trap è spinta dalla ricerca di suono nuovo, tecnologico, super umano, come in quell’autotune identitario creatore della voce iconica uomo/macchina. Anche la trap poggia sulla ricerca di un suono mai sentito prima, evocativo dell’urgenza espressiva della comunità che quel suono rappresenta. La stessa urgenza che era stata della techno e dell’hip hop prima, ma anche della disco. Tutti esempi di suoni di matrice afroamericana, nati portando la bandiera dell’indipendenza e delle comunità di appartenenza. L’abbraccio della tecnologia avanzata da parte di alcuni artisti neri come risposta antagonista potrebbe non essere solo una questione di preferenze estetiche, ma potrebbe riflettere anche tensioni più profonde legate all’esperienza del capitalismo rispetto al loro posizionamento sociale.
LA TRAP
La trap è protagonista dell’ultima parte del libro, nella quale Enrico Monacelli la racconta nella sua versione lo-fi, a conferma del fatto che la bassa fedeltà esiste in qualsiasi genere musicale. Il libro si chiude con il racconto di due trapper bianchi, Sematary e Ghost Mountain, i quali trasformano il suono trap afroamericano in una sorta di death metal trap gore, granuloso. Proprio l’epilogo del libro ci fornisce il punto di congiunzione fra l’approccio sporco e demolitivo al suono e quello ipertecnico di scolpitura del suono. La trap, musica digitale e afroamericana, diventa un attacco lo-fi suonato da due ragazzi bianchi che sfanculano le regole della produzione pur approfittandone integralmente. Tenendo a mente che Bassa fedeltà. Musica lo-fi e fuga dal capitalismo, non è un enciclopedia degli artisti lo-fi, ma un percorso personale all’interno di quel suono teso ad un’azione luddista contro il mainstream, notiamo che fra gli artisti che hanno coltivato il lo-fi raccontati nel libro, non ci sono neri e anche un genere afroamericano come la trap entra nel tema in una versione lo-fi creata da due ragazzi bianchi. Non c’è alcun intento suprematista nel bellissimo libro di Monacelli, ma nel suo percorso nel lo-fi non ci sono artisti neri. Forse perché, come accennato, il suono nato dalla reazione al sistema è influenzato dall’esperienza del capitalismo che hanno avuto le comunità nere e le comunità bianche in nord America in base al rispettivo posizionamento sociale?
Facciamo un salto nella seconda metà degli anni Settanta, quando la bassa fedeltà (prima che fosse definita bassa fedeltà) e la ricerca di un suono sempre migliore già strofinavano le spalle nella città di New York. Il DIY (do it yourself, il fai da te, l’invito a fare musica senza l’aiuto di tecnici) ha anticipato l’approccio anti-perfezionista della bassa fedeltà prerogativa del punk, cultura prevalentemente bianca. Verso la fine degli anni Settanta il punk conviveva con la disco, suono di matrice afroamericana, che ricercava invece un suono di qualità. Il punk dei bianchi e la disco dei neri erano culture contemporanee e opposte, due modi di concepire il suono che non avevano niente in comune, apparentemente. In realtà erano entrambi modi di ribellione e rivendicazione di diversità che si esprimevano nel no oppositivo del punk verso la società e il sì edonistico della disco come reazione alla stessa società.
In Summer of Sam, il film di Spike Lee, la dicotomia tra la disco music e il punk è riassunta nel rapporto fra il personaggio di Vinny, appassionato di disco che sogna di ballare al nuovissimo Studio 54 e il suo vecchio amico Ritchie (Adrien Brody) diventato punk che suona al CBGB’s. I due non potrebbero essere più distanti e allo stesso tempo più vicini. Come lo Studio 54 e il CBGB’s, due locali mitici nella storia della musica, che convivevano nella stessa città, nello stesso momento, vicini e lontani in culture antitetiche. Una di matrice nera, l’altra bianca. Una nata mettendo le mani su una chitarra e iniziando a suonare anche senza saper suonare, l’altra attivata dall’arrivo dei primi strumenti elettronici di massa, come sintetizzatori e batterie elettroniche. Una lo-fi, non curante del suono, anzi amante dell’imperfezione e guidata dal non fare «come si fa» e dal rifiuto dei mezzi di produzione capitalisti della musica, l’altra tecnologica e affascinata dal suono spaziale, il suono del futuro ottenuto attraverso l’uso delle massime possibilità offerte dalle macchine create dal capitalismo. Entrambe mettevano le mani sugli strumenti e le macchine per tirarne fuori il suono necessario alla propria espressione di opposizione alla cultura del sistema, condividendo lo stesso fine, ma rimanevano antagoniste nell’uso dei mezzi di produzione a disposizione, forse proprio per le diverse esperienze che le comunità che esprimevano quelle musiche avevano del capitalismo.
Torniamo ora nel presente. Ad agosto il duo di produttori bianchi inglesi Chase & Status, insieme al re nero Stormzy, ha pubblicato un singolo drum and bass, un tipo di dance di matrice afrocaraibica rimasto per decenni nell’underground e che ultimamente è sbocciato nel mainstream grazie a singoli come questi e alla passione per i ritmi accelerati che pervade la club culture. Il suono del pezzo è balistico, cesellato, tagliente. Nello stesso mese i bianchi statunitensi Uniform, un gruppo che Monacelli definisce everythingcore, un mix di industrial, metal, noise, power electronic, death industrial, musica spacca orecchie che prende da tutti gli angoli della musica estrema senza discriminare troppo, hanno pubblicato American Standard, album accartocciato e ruvido. Chase & Status scolpiscono il suono spingendolo verso il futuro, superando di tanto la qualità dell’audio funzionale delle piattaforme mentre gli Uniform distruggono il suono con l’intento di sabotare la musica da classifica. Due intenti contrapposti con risultati molto diversi, ma che alla luce di quanto detto appaiono legati, espressione della stessa istanza rivoluzionaria del DIY, del fai da te. Da una parte i suoni distorti, scabri, il rifiuto del sistema, il no della cultura bianca che fu del punk, dall’altra i suoni cesellati e lavorati, il superamento del sistema, il sì della cultura nera che fu della disco.
Il lo-fi non è musica bianca e il suo opposto non è musica nera, ma è plausibile che l’esperienza che ogni comunità che crea musica ha del capitalismo, influenzi il modo d’uso dei mezzi di produzione artistica messi a disposizione del mercato, il quale può diventare abbattibile o superabile. Lo stesso Monacelli propone una lettura del rapporto fra lo-fi e quello che abbiamo chiamato hi-fi, tornando su American Standard degli Uniform. Un disco tecnicamente super prodotto, che possiamo mettere nell’hi-fi, ma allo stesso tempo un disco con un’etica profondamente hooligan, come quella degli artisti descritti nel libro. Un disco che inonda le canzoni con suoni poverissimi, quasi mostruosi per accompagnare la sua marcia inesorabile. Suoni della decadenza industriale che ci circonda, a volte perfino stonati, ma che gli Uniform hanno messo insieme usando lo studio di registrazione come strumento musicale. Le traiettorie della bassa fedeltà e dell’alta fedeltà ora convergono contro un nemico comune: il mercato come istanza che impone il suono alla musica. Nemico dal quale si può decidere di fuggire creando il suono ultra-grezzo del no, o si può scegliere di scavalcare attraverso il suono super lucidato del sì. In entrambi i casi, si tratta di un suono lavorato in un modo premeditato.
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