Livio, istantanee storiche su un grande vuoto
Classici perduti Solo 35 libri su 142... La chimera di un Livio «completo» ha sempre intrigato politici, intellettuali e filologi: da Simmaco a Petrarca
Classici perduti Solo 35 libri su 142... La chimera di un Livio «completo» ha sempre intrigato politici, intellettuali e filologi: da Simmaco a Petrarca
In un famoso passaggio dei suoi Rerum memorandarum libri, Francesco Petrarca leva un’accorata protesta contro il naufragio della gran parte del monumento storiografico di Tito Livio, causato, ai suoi occhi, dall’incuria della sua generazione. Oggi, esattamente seicentottanta anni dopo la composizione di questo lamento, sappiamo molto di più della tortuosa trasmissione dell’opera liviana, ne conosciamo nel dettaglio i contorni, le circostanze storiche, siamo perfino riusciti a colmarne in piccola misura le lacune. Eppure, ogni lettore o studioso di Livio è costretto prima o poi a fare i conti con la stessa gigantesca assenza che colpì Petrarca. Gli Ab urbe condita libri erano, anche per gli standard antichi, un’opera mastodontica: sette secoli e mezzo di storia di Roma, dalla mitica fondazione fino alle campagne germaniche di Augusto (12-9 a.C.), raccontati in 142 libri, probabilmente pubblicati a gruppi di cinque, dieci o quindici. A parte un certo numero di frammenti conservati per tradizione diretta o indiretta, soltanto trentacinque di essi sono giunti a noi sostanzialmente integri: la prima decade, dalla fondazione di Roma alle guerre sannitiche, la terza, dedicata alla seconda guerra punica, e i libri dal 31 al 45, che trattano l’espansione romana nel Mediterraneo fino alla battaglia di Pidna (168 a.C.).
L’enorme estensione dell’opera rese complicata la sua diffusione già in epoca antica. Compendi ed epitomi sono testimoniati fin dai decenni successivi alla morte dello storico: a un’edizione abbreviata allude Marziale, ironizzando sull’impossibilità di contenere l’ingens Livius in una biblioteca. Se il perdurare di questa tradizione epitomatoria ci consente oggi di leggere brevi riassunti dei libri perduti, le cosiddette Periochae, l’opera originale rimase sempre più appesa al filo dei limiti materiali della produzione libraria, degli accidenti della storia e, non ultimi, del gusto e dell’interesse dei lettori. Ciò che di Livio è sopravvissuto dice molto di quello che l’élite culturale tardo-antica cercò nella sua opera: il racconto «definitivo» dell’ascesa dell’imperium di Roma.
Per ironia della sorte, fu Livio stesso a decretare in qualche misura le sorti della propria opera. La composizione di annali a primordio urbis è il frutto di una scelta consapevole, volutamente in controtendenza al gusto letterario coevo, che nella storiografia cercava innanzitutto risposte al trauma delle guerre civili. Secondo Livio, invece, la ferita del presente poteva essere curata soltanto spingendo lo sguardo all’indietro, fino alle origini della romanità. D’altra parte, è proprio leggendo la Praefatio, così allusiva ed enigmatica, che il lettore moderno ha la profonda percezione della vasta zona d’ombra proiettata dal Livio perduto. Nel racconto delle guerre civili avremmo forse trovato le coordinate necessarie a collocare nella temperie augustea la sua figura di intellettuale, centrale ed eternamente sfuggente. A cominciare dal suo rapporto con un grande protagonista della «rivoluzione romana» come il cesariano Asinio Pollione, autore nella prima età augustea di un’opera dedicata alla guerra civile tra Cesare e Pompeo. Un’opera oggi perduta, così come perduti sono i libri di Livio che forse a essa reagivano, attirando al loro autore l’epiteto scherzoso di Pompeianus da parte di Augusto in persona. Augusto, si può dire, troneggia al centro di questo grande cono d’ombra. La vicinanza dello storico al princeps difficilmente può essere messa in dubbio, ma l’immagine di semplice cantore del nuovo regime non regge di fronte al pessimismo della Praefatio, alle allusioni a un remedium contro le guerre civili difficile da sopportare.
Proprio la tradizione delle Periochae rende il nodo del rapporto con il principato ancora più intricato: stando a una nota presente in alcuni manoscritti, il libro 121, che copriva buona parte dell’anno 43 a.C., fu pubblicato dopo la morte di Augusto. La notizia ha naturalmente generato un ampio dibattito: si tratta di una semplice notazione cronologica, o della prova che Livio allargò il piano originario dell’opera soltanto dopo che la morte del princeps lo ebbe messo nelle condizioni di raccontare francamente il periodo della sua ascesa? Nel qual caso, questo farebbe di Livio un cortigiano attento a non scontentare il padrone di Roma, o un libero pensatore che, pur attendendo il momento propizio, non si fece scrupolo a fornire una versione indipendente di quei turbolenti ultimi anni di repubblica?
Eppure, a parte gli interrogativi che il naufragio di un’opera tanto centrale per la civiltà antica sempre genera, trattando del Livio perduto ci si trova inevitabilmente di fronte a questioni culturali di respiro più profondo. Diversamente da altre opere, la storia ci ha conservato tracce concrete dello sforzo filologico che la civiltà tardo-antica profuse nella conservazione degli Ab urbe condita libri. Ne possediamo, anzi, vere e proprie istantanee. In un’epistola del 401 a.C., Quinto Aurelio Simmaco, noto difensore della tradizione pagana, si scusa con l’amico Valeriano se non è ancora riuscito a fornirgli l’edizione completa di Livio che gli ha promesso: il lavoro di correzione richiederà ancora un po’ di tempo, ma quando sarà il momento, dovrà inviare un fattorino, poiché tutti i suoi sono impegnati in altro. Di questo lavorìo recano traccia alcuni manoscritti della prima decade giunti a noi, che includono le sottoscrizioni dei copisti che se ne occuparono per conto dei Simmachi e dei Nicomachi, un’altra famiglia in vista. Ecco dunque, proprio sul crinale tra due epoche, la chimera: un Livio completo, uno dei pochissimi conservati in tutto l’impero, per di più emendato per iniziativa di membri illustri dell’aristocrazia pagana. La tradizione della Roma antica gelosamente custodita e protetta come un retaggio familiare, un bastione contro il Cristianesimo ormai dilagante. E se è vero che la teoria del revival liviano tardo-antico è stata in buona misura smontata da Alan Cameron nel suo The Last Pagans of Rome, essa aiuta a mettere a fuoco quale sia stato il peso storico-culturale del Livio perduto. Come se nella trasmissione di questo immenso racconto fosse inevitabile intravvedere le vicende del mito stesso della romanità.
È questo, in definitiva, il senso del lamento levato da Petrarca: che speranza ha di perpetuare la gloria di Roma un’epoca che di quella gloria ha consentito andasse perso il racconto? Ed è questa la domanda da cui si diparte un’altra suggestiva, intricata storia: la ricerca delle decadi perdute, divenute una sorta di mito culturale, un miraggio inseguito dai filologi di ogni tempo. La stessa protesta di Petrarca nasce in realtà dalla frustrazione: la ricerca della seconda decade, cui l’ha indirizzato il re di Napoli in persona, Roberto d’Angiò, non ha dato frutti, e sfuma la speranza di raccordare almeno le porzioni dell’opera allora note. Per secoli, nella corrispondenza degli umanisti si inseguono le voci di decadi di Livio riemerse in manoscritti venerandi, a stento leggibili, spesso in luoghi remoti dell’Europa settentrionale. Alla fine del Trecento il Margravio di Moravia Jobst riferisce a Coluccio Salutati di aver visto un Livio completo a Lubecca. Pochi decenni dopo, in Vaticano un monaco danese giura di fronte a Poggio Bracciolini di aver scovato cento libri in un monastero a Sorø. Il compasso geografico delle dicerie si allarga sempre più, fino ad abbracciare terre ben più suggestive. Livio diventa la favola di falsari e impostori d’ogni risma. Alla fine del Seicento un certo Giustiniano di Scio tenta di vendere a Luigi XIV un Livio completo, fortunosamente salvato dal rogo della biblioteca del Serraglio di Costantinopoli. E poi l’Etiopia e la Sicilia moresca, dalla quale il palermitano Giuseppe Vella alla fine del Settecento dichiara sia emersa una traduzione araba.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare a lungo, fino al caso più recente, nella Napoli degli anni venti del Novecento, quando Mario Di Martino-Fusco convinse per alcuni mesi la stampa mondiale (e perfino un eminente livianista come Robert S. Conway) d’aver finalmente messo le mani su alcuni libri perduti. Come ebbe a dire Berthold L. Ullman tracciando The post-mortem adventures of Livy, davvero forse il Rinascimento finirà soltanto quando smetteremo di cercare il Livio perduto.
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