Politica

Livia Turco: «Con Napolitano discussioni schiette. Era un uomo delle istituzioni»

Livia Turco: «Con Napolitano discussioni schiette. Era un uomo delle istituzioni»22 aprile 2013, il discorso dopo la rielezione a presidente

Intervista "Diceva che senza riforme che rendessero le istituzioni più rappresentative e più decidenti non si combattevano i populisti di cui è stato avversario"

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 settembre 2023

«Giorgio Napolitano è stato un pilastro della sinistra italiana ed europea». Così Livia Turco, che nel Pci e nei Ds oltre che da ministra del primo governo Prodi ha lavorato accanto a Napolitano, traccia il profilo del presidente emerito.

Che ricordo ha di lui?

L’acume del pensiero, la lungimiranza, la cultura, la capacità nelle relazioni internazionali. E la franchezza che ne caratterizzava la battaglia politica. È stato il primo del Pci a fare il presidente della Repubblica. Ha difeso i valori costituzionali anche sollecitando i partiti a fare le riforme, diceva che senza riforme che rendano le istituzioni più rappresentative e più decidenti non si combattono i populisti di cui è stato avversario. Inoltre, è stato il dirigente comunista che si è battuto per valorizzare l’originalità del percorso del Pci, la stessa cosa per cui si era battuto Berlinguer e lo stesso Natta, che nel diciassettesimo congresso parlò del Pci come parte integrante della sinistra in Europa.

Lei però apparteneva a una corrente diversa.

Ho difeso Berlinguer sulla questione morale, sull’austerità, sull’alternativa democratica e il rapporto coi movimenti. Ma quando parlava Napolitano prendevo appunti. Ricordo una discussione esplicita e limpida, diceva chiaramente le ragioni per cui non era d’accoro. Io stavo con l’ultimo Berlinguer, quello del tentativo di rinnovamento, del nuovo modello di sviluppo, della lotta agli armamenti e per un mondo multipolare. Avevamo una posizione diversa dalla sua ma voglio sottolineare che persone come lui, Chiaromonte, Lama, Amendola e Iotti erano un valore. Quella schiettezza poteva sembrare dura, ma aiutò a far emergere una discussione utile in un partito in cui c’era un forte senso del unità.

Fu più uomo di istituzioni che di partito?

In un certo senso è vero. Sollecitava il partito ad avere cultura di governo. Il che significava sempre chiedersi: come lo risolvi quel problema? Per la credibilità della sinistra una visione del genere è stata importante. Poi, a un certo punto, il suo ruolo gli ha richiesto di essere uomo delle istituzioni: presidente della Camera, presidente del parlamento europeo e poi al Quirinale. Perché funzionino, le istituzioni devono essere la casa di tutti. Bisogna rispettare la pluralità e le diverse culture politiche. Da qui derivava l’assillo per le riforme che lui e Nilde Iotti, dalla crisi della Prima repubblica, hanno sempre avuto.

Il suo nome è accostato a quello di Napolitano per la legge sull’immigrazione del 1998, quella che da un lato aprì a flussi regolari e dall’altro introdusse i Centri di permanenza temporanea. Lei era ministra della solidarietà sociale, lui stava al Viminale.

La costruzione di quella legge è stata molto significativa. In quell’occasione ho scoperto un Napolitano molto rispettoso del nostro piccolo ministero della solidarietà sociale. Dietro il suo rigore ho visto trasparire umanità. Io gli avevo detto che per fare la legge avrei consultato associazioni e operatori sociali, lui mi disse che andava bene ma aveva a cuore il rispetto dei tempi che ci eravamo dati. Prodi disse «Basta emergenza, l’emigrazione è strutturale e ci vuole una legge quadro per governarla». In verità, eravamo anche in emergenza: nel pieno degli sbarchi dall’Albania e nascevano gli imprenditori politici dell’odio, a partire da Bossi.

Quindi dovevate fare presto…

Faccio un esempio: quando affrontammo il problema della lotta alla tratta io avevo fatto un tavolo con suore, operatori di strada, comitati per i diritti delle prostitute. Nel paese, compresi alcuni sindaci di sinistra, qualcuno proponeva di riaprire le case chiuse. Eravamo io alla solidarietà sociale e Anna Finocchiaro alle pari opportunità. Chi lavorava con le donne sfruttate ci disse che serviva dare un permesso di soggiorno di protezione sociale per le donne che volevano uscire dalla tratta. Napolitano mi chiamò e volle che gli spiegassi questa vicenda. Dimostrando grande sensibilità disse che non si poteva non tenere conto delle indicazioni di quel tavolo. Dunque, il Viminale non si oppose come temevano molti, anche se poi fu difficile applicare quella norma. Così avvenne quando parlammo dei diritti sociali e gli proponemmo che anche alle persone irregolari fosse garantito il diritto alla scuola, alla sanità, alla maternità. La vera dialettica fu sul diritto di voto alle amministrative per chi aveva un permesso di soggiorno da più tempo. Napolitano non era entusiasta perché i costituzionalisti dicevano che bisognava intervenire sull’articolo 48 della Costituzione. Io pensavo che i migranti dovessero essere coinvolti nei processi partecipativi. Lui però capì che questa proposta avrebbe inasprito il confronto, che già si annunciava duro, con l’opposizione. In effetti, la legge si trovò il fuoco di sbarramento di Bossi e Fini che chiedevano di stralciare quella norma e così avvenne.

C’è poi la questione dolente della detenzione nei Cpt.

Fu un altro punto oggetto di discussione. Stabilimmo il trattenimento per 30 giorni per chi negava le generalità. Tutto ruotava attorno alle espulsioni per via amministrativa. L’accompagnamento immediato alla frontiera era disposto solo nei casi che individuava il prefetto sulla base della pericolosità. La legge Bossi-Fini invece prevedeva l’immediato accompagnamento alla frontiera (cosa poi non avveniva per mancanza di mezzi) e l’allungamento della detenzione. Dunque il nostro trattenimento era diverso. Napolitano tenne il punto. Dovette faticare per convincermi, è innegabile che ebbi un disagio personale. Lui mi assicurò che il tutto era costituzionale (cosa in effetti confermata dalla Consulta) e che si trattava di allinearsi all’Europa.

Fu sua la scelta di far nascere il governo Monti, nel 2011 dopo la caduta di Berlusconi. Se si fosse andati subito al voto il centrosinistra avrebbe vinto.

Era il presidente della Repubblica e aveva la cultura della stabilità. Tenderei a distinguere il dibattito politico e il ruolo del presidente, che deve garantire continuità. Semmai, erano i partiti che dovevano assumersi l’onere di dire che non erano d’accordo con quella scelta. Non mi pare che lo fecero.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento