Probabilmente il piano sequenza più bello del cinema di Lisandro Alonso, e uno dei più importanti nella storia del cinema recente: in Liverpool (2008), il protagonista, Farrel, laconico e in preda a un’inerzia trasparente, come soporifera (dell’immagine, l’immagine di lui fagocitata da questo tempo materiale e diafano che si dipana, si addensa sullo schermo), nel tragitto che lo porta da un cargo appena attraccato fino alle plaghe innevate, remote della Terra del fuoco, a ritrovare (a riperdere) madre e figlia, si ritrova sul rimorchio di un camion insieme a dei tronchi d’albero. E lì, per tutto il tempo in cui, senza stacchi, la macchina da presa inquadra intrichi d’alberi ai bordi della strada e una sequela di nevai – o è forse questo panorama a invadere lo sguardo, a impossessarsi dell’essere della lente – accade qualcosa di elementare e stupefacente, che riguarda l’elemento primevo, l’essenza stessa del cinema: le forze cinematografiche, trasparenti, sfatte, che tramano sullo sfondo del quadro, arrivate dall’iperuranio del fuori-campo; il principio stesso del moto; ciò che inscrive nottetempo lo spazio-tempo; sopravanzano nel quadro – condotti dal moto stesso del camion – facendosi inerzia di bianco scialbo, di un verdognolo vegetativo, intricato; qualcosa che non è più, non è ancora forma fatta, piuttosto un’astrazione, un intervallo tra l’invisibile e il visto, prima di farsi forma, sagome di cose e persone.

È L’ESPOSIZIONE, nuda, impudica, di questo processo, dell’intervallo entro cui le forze si fanno forme, cose dell’immagine, che è il centro, il fuoco del cinema di Alonso, un cinema sempre a fuoco, in profondità di campo, sguardo spalancato sulla nitida estensione dell’ontologia colta nel suo farsi; e che si fa segno (prima di farsi sogno in Jauja, cioè segno di un segno), già dal suo esordio, il cortometraggio Dos en la veranda.
Liverpool sarà in programma, in prima visione tv, nella notte di «Fuori Orario» del 25 marzo all’1.45, occasione per contemplare questo «tutto» che dà l’impressione di essere «nulla» (con la sua trama inesistente) e che deriva, flaubertianamente, dal regista che si annulla, esercita la propria prerogativa di autore, annullandosi, annettendosi nell’inerzia densa e nell’evidenza delle cose. Talmente evidenti, dilatato il loro tempo di esposizione, da suonare psichedeliche, ipnotiche (le musiche dei Flormaleva sui titoli di testa non commentano ma fanno la sequenza, l’evento, una delle oggettive vicende del panorama cinematografico), sempre inscritte, sobillate dalle forze che fanno brulicare questa materia iconografica. È il suo brulicare che si fa segno, che fa il segno, il cinema: non è cinema realistico – non conta il referente fuori – ma metafisico, che attinge in continuazione da sé, dal proprio repertorio di segni. Perciò la svolta onirica di Jauja, il solido spaesamento condotto dal segno elevato a sogno, era già in nuce in Liverpool, ma ancor prima, in quel capolavoro di sostanziali apparenze che è Fantasma, e ancor prima: non è che quella che Derrida chiama «un’apparenza di carne».