Scrivere per sé, scrivere per gli Uomini e le Donne del futuro, scrivere per il teatro. Nella ricerca di Liv Ferracchiati, drammaturgo, regista e performer nato a Todi nel 1985, le parole scavano attraverso il vissuto per innescare un contatto, condividere domande e tremori sull’incertezza che affrontiamo, con l’ironia e l’umorismo a renderci più leggero il percorso. Quello dell’identità è infatti un tema che può dare le vertigini se non affrontato con le giuste precauzioni, e Uno spettacolo di fantascienza, in scena al Teatro India di Roma fino a domenica dopo una lunga tournée – sul palco anche Andrea Cosentino e Petra Valentini – è l’ultimo corpo a corpo di Ferracchiati con questi interrogativi. «Non nego che la mia esperienza rispetto alla questione di genere mi abbia aperto un mondo rispetto a come si costruisce un’identità, quest’ultima però si compone di molti altri ambiti» spiega l’autore, la cui riflessione così contemporanea abbraccia anche il classico – ha da poco infatti debuttato con la regia di Medea dove si intersecano testi di Seneca, Euripide, Pasolini e Antonio Tarantino.

Scrivi per la scena e per te stesso come performer, hai debuttato con il primo romanzo «Sarà solo la fine del mondo». Cosa cambia secondo il fine della scrittura?

Il processo per me è piuttosto lungo, inizio a studiare il tema o l’autore – finora ho lavorato su Cechov e Ibsen in particolare – circa due anni prima. Prendo moltissimi appunti e alla fine la mia idea si incontra con l’energia e le qualità degli attori. Credo che ognuno dei miei lavori sia abbastanza diverso, ad esempio Stabat Mater, del 2017, è un testo di prosa più «classico» con una sua autonomia mentre Uno spettacolo di fantascienza vive per la scena. Con il romanzo il processo di scrittura non cambia molto, una volta deciso ciò di cui voglio parlare cerco di studiare e nutrirmi di ciò che è già stato scritto, la propria percezione non basta. In questo lavoro ho trattato il tema della rappresentazione identitaria in modo ampio, ma nella Trilogia sull’identità, in cui mi sono concentrato di più sulla questione di genere, ho intervistato molte persone transgender e parlato con chi studia questo tema. Il mio approccio è stato spesso definito autobiografico ma non lo è del tutto perché ho sempre un occhio rivolto verso l’esterno; il fatto poi che abbia chiamato il personaggio Liv e che abbia la mia identità di genere non implica un automatismo. Non penso di essere un attore, interpretare in un senso canonico mi fa sentire a disagio e allora con il mio stesso nome entro in una dimensione più performativa. Tuttavia, quel Liv sul palco non esiste, è una maschera che gioca a essere l’autore.

Più che sull’autobiografia i laboratori di drammaturgia che proponi sono centrati in effetti sull’autofinzione.

Credo che l’autofinzione si possa rintracciare anche in molti autori che mai si sognerebbero di farla. Mi ci sono avvicinato in senso più stretto nell’ultima parte del romanzo, in cui il protagonista ha la mia stessa età, e quindi ci ho consapevolmente giocato. Nel laboratorio si parte da un fatto vissuto dal partecipante per costruire nel senso della finzione, cercando di capire quali siano i confini: è possibile una scrittura non autobiografica, se tutto è filtrato dalla nostra dalla percezione? Quanto quest’ultima è fallace, quanto la memoria è labile e così via? La differenza la fanno i temi di cui si parla.La mia esperienza rispetto alla questione di genere mi ha aperto un mondo rsu come si costruisce un’identità, quest’ultima però si compone di molti altri ambiti

A proposito di temi, in questo spettacolo emerge quello della fine del mondo, che circola nello spirito del nostro tempo e si intreccia a quello dell’identità. Come si legano le due questioni e cosa può fare il teatro per affrontarle?

La fine del mondo è una metafora con la quale raccontare la percezione del crollo per chi, togliendo strato dopo strato, si rende conto che poco rimane di un «io autentico». Tutti ci costruiamo un’identità, volenti o nolenti assumiamo forme che servono a comunicare ciò che siamo. Molte di esse sono preesistenti e spesso vengono adottate acriticamente. La domanda su «chi sono io davvero» potrebbe sembrare individualista e invece è universale, ci riguarda tutti in quanto esseri umani. Non parlo solo delle minoranze ma anche di chi agisce nella cosiddetta norma. Dobbiamo usare queste forme come strumenti, non come limitazioni, e con consapevolezza così da non opprimere quelle altrui. Nello spettacolo cerco di raccontare i cambiamenti delle convenzioni, sia teatrali che della vita, provando a svelare i meccanismi su cui riposano. La tramoggia, da cui cade la neve sul palco, è sempre bene in vista mentre tradizionalmente si vede solo l’effetto, poetico e teatrale, nascondendo il trucco.

È una tendenza diffusa nel teatro contemporaneo, quella di svelare sempre di più il processo della messinscena.

Credo che più o meno consciamente i teatranti percepiscano che i tempi stanno cambiando, anche le recrudescenze reazionarie a cui assistiamo fanno parte di uno scontro tra tesi e antitesi, speriamo che si arrivi presto a una sintesi – ma ci vorranno forse 50 anni.