E’ difficile credere che Cormac McCarthy, in adolescenza simpatico chierichetto alla chiesa dell’Immacolata Concezione di Knoxville, nello scegliere il titolo del suo ultimissimo romanzo, Stella Maris, non abbia pensato all’inno cristiano dell’VIII-IX secolo scritto da un ignoto compilatore (forse Paolo Diacono). Impiegato principalmente per i Secondi Vespri del comune della Beata Vergine Maria, Ave, maris stella è costituito da sette quartine in tripodia trocaica. Ecco le prime due, folgoranti: «Ave, maris stella, / Dei Mater alma / atque semper virgo / felix cæli porta. // Sumens illud “Ave” / Gabrielis ore / funda nos in pace / mutans Evae nomen» («Ave, stella del mare, / Madre di Dio datrice di vita e sempre vergine, / porta feconda del cielo. // Accogliendo l’“Ave” / dalla bocca di Gabriele, / radicaci nella pace, / mutando la sorte di Eva»).

Ave, maris stella è compresa nel corpus delle preghiere approvate e utilizzate nella liturgia delle Ore dalla Chiesa cattolica di rito romano. E con Inni cristiani d’Occidente (a cura di Federico Giuntoli, Einaudi «I Millenni», pp. XCVI-952, € 90,00) abbiamo finalmente la prima traduzione integrale, annotata con acribia filologica, degli oltre 290 carmi che partono da sant’Ambrogio – e quindi dal IV secolo – per approdare ad Anselmo Lentini, scomparso nel 1989, «uno dei maggiori interpreti della riforma della Liturgia horarum dopo il Concilio Vaticano II».

Il testo latino è conforme all’editio typica altera (4 volumi, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1985-1987) ed è riportata «la notazione gregoriana, modulare (…) in riferimento ai soli due primi tetragrammi di ogni monodia»; la traduzione a fronte è di Giuntoli – già curatore della Bibbia nei «Millenni» –, il quale ricorda nell’introduzione al libro l’origine profonda dell’innodia liturgica occidentale: «Fu ancora la presenza ariana, non nelle Gallie, come per Ilario, bensì in Italia, a dare presumibilmente possibilità ad Ambrogio di Milano di dedicarsi alla composizione di inni, attraverso i quali veicolare al popolo la dottrina ortodossa, al punto da essere considerato, di fatto, come il vero fondatore dell’innologia cristiana in Occidente – anch’egli, come il contemporaneo Ilario, importando dall’Oriente lo stile innodico e introducendo anche, oltre alla composizione metrica, il canto responsoriale.

Prima dell’avvento di Ambrogio, infatti, in Occidente i salmi erano abitualmente esposti in canto da un singolo cantore, in una sorta di assolo, mentre l’assemblea liturgica si limitava ad aggiungere gli ultimi neumi sulle sillabe finali di ciascun versetto, oppure a ripetere un medesimo verso, a mo’ di ritornello, tra quelli proposti come assolo dal cantore. A Costantinopoli, al contrario, i versetti degli inni erano proposti in modo antifonale, ovvero a cori alterni, come in seguito, proprio a partire da Ambrogio, divenne consuetudine anche in Occidente».

I capitoli dell’opera (Proprio del tempo, Tempo ordinario, Solennità del Signore nel tempo ordinario, Proprio dei santi, Comuni, Ufficio dei defunti) scandiscono il complesso assetto della Liturgia horarum, affascinante nel suo essere preghiera «a Cristo e con Cristo», cioè nel suo prender parte sacramentale alla perpetua orazione di Gesù rivolta al Padre. Sotto il profilo storico – si è visto –, l’innodia nasce quale «strumento pastorale di catechesi» e lotta contro gli ariani. Ambrogio utilizza un metro scorrevole, quasi narcotico, facile da memorizzare: il dimetro giambico.

Nell’avvicendarsi dei secoli, tuttavia, le forme della poesia latina classica fanno storcere il naso ai vertici ecclesiastici maggiormente legati all’assoluta salvaguardia della sacertà della parola divina. Ma la straordinaria fluidità e l’efficacia di diffusione presso i fedeli hanno consentito lo sviluppo del sistema innografico fino al paradossale inserimento, in epoca rinascimentale, di personaggi del mito. Si pensi a Iacopo Sannazaro che «nel suo poema De partu Virginis (1526) fece intervenire attorno alla mangiatoia di Betlemme una teoria mitologica di ninfe, dee e sibille», arrivando a nominare Maria Divapotens («potente dea»), lo Spirito Santo Aura Zephyri caelestis («brezza del celeste Zefiro») e la generazione filiale di Cristo Minerva Jovis capite orta («Minerva sorta dalla testa di Giove»).

Dopo i lavori di contenimento voluti da Leone X e Clemente VII, la prima forte cesura si ha nel XVII secolo con Urbano VIII che mette in piedi una «non trascurabile riforma dell’innario», istituendo un collegio per la revisione dei brani nel Breviarum Romanum. I severi censori individuarono ed emendarono ben «952 errori di prosodia nei 98 inni allora presenti» con «58 alterazioni negli inni del tempo ordinario, 359 in quelli dei Tempi di Avvento, Natale, Quaresima e Pasqua, 283 nel proprio dei santi e 252 nei comuni».

Durante il Concilio Vaticano II si attua il secondo grande rinnovamento, teso a conferire al canone una sistemazione pressocché definitiva. «Per quanto concerne gli aspetti della riforma legati alla liturgia – prosegue Giuntoli –, la cosiddetta Commissione Antepreparatoria del documento conciliare sulla Sacra Liturgia (…) venne costituita da Giovanni XXIII il 17 maggio 1959. (…) Furono sostanzialmente tre i suggerimenti addotti riguardo ai criteri con cui intervenire sui testi dell’innario della liturgia delle Ore (…). Si ritenne di dover espungere dall’innario quei testi che, al di là dell’elegante arte poetica con cui erano stati composti, si discostavano di molto dallo stile dell’antica innologia, conservando di per sé anche poca ispirazione religiosa. Si ritenne pure di dover riportare i testi alle lezioni il più possibile autentiche, espungendo gli interventi snaturanti della riforma di Urbano VIII. Fu anche auspicato di dividere in più parti gli inni particolarmente ampi, se non, anche, di abbreviarli, eliminando le strofe meno significative». Ça va sans dire, le correzioni provocarono dibattiti e polemiche.

Al di là delle questioni di puro assestamento e di rettitudine dottrinale, gli autori degli inni sono per noi oggi nomi sonanti, usciti dalle stanze fumide dell’abbazia del Nome della rosa: Alcuino di York, Beda il Venerabile, Godescalco di Fulda o di Orbais, Fulberto di Chartres, Helisachar Andegavensis, Oddone di Cluny, Valafrido Strabone, Venanzio Fortunato. Nomi che con il loro potere di tintinnio rendono arcani e preziosi gli stessi salmi. Per il tempo di Avvento, ad esempio, il breviario ci suggerisce il Veni, redemptor gentium di sant’Ambrogio: «Præsépe iam fulget tuum / luménque nox spirat novum, / quod nulla nox intérpolet fidéque iugi lúceat. // Sit, Christe, rex piíssime, / tibi Patríque glória / cum Spíritu Paráclito, / in sempitérna sæcula. Amen» («Già risplende la tua mangiatoia / e la notte diffonde una nuova luce, / che nessuna notte può smorzare / e che riluce fedelmente per sempre. // Sia gloria a te, Cristo, / pietosissimo re, e al Padre / con lo Spirito paraclito / per i secoli eterni. Amen»).

Un bagliore ambrato raccolto nella precisa indicazione dei contorni giornalieri: «Dal 17 dicembre incluso fino al Natale escluso. Ufficio delle letture, nelle domeniche e nelle ferie». Movimento cadenzato. Salterio da Sweeney Astray. Estasi uditiva. Così Cristo «largitore splendente della luce», Maria «prima testimone del Risorto», Giuseppe «soccorritore dei lavoratori»; e poi Giovanni Battista, Pietro e Paolo, i santi e gli angeli stivati dentro solennità varie: davvero – come osservò Agostino nel Sermo 336 – «cantare amantis est», «cantare è proprio di chi ama», nella spirale ritmica sillabata dal tempo circolare, almeno finché la bolla non si allarghi allo spettro dell’infinità. E con Anselmo Lentini in Qui lacrimatus Lazarum si dirà: «Tuósque voca fámulos, / ex hoc proféctos sæculo, / ut ubi mors iam déerit / te vitæ canant príncipem. Amen» («Chiama i tuoi servi, / partiti da questo mondo, perché, / dove non sarà più morte, / cantino te, principe della vita. Amen»).