Visioni

L’Italia vista da Palermo, un doppio passo di cinismo e resistenza

L’Italia vista da Palermo, un doppio passo  di cinismo e resistenzaFranco Maresco – Paolo Caravello

Intervista Cosa nostra, l’immaginario, l’epoca dei social. Una conversazione con Franco Maresco intorno al suo lavoro. «La mafia non è più quella di una volta« è in sala, intanto sta preparando un progetto su Joe Lovano

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 4 ottobre 2019

In passato Ciccio Mira, l’eclettico organizzatore di concerti neomelodici ha fatto anche i lavori socialmente utili, una decisione del sindaco di Palermo Orlando. Sarà per questo che nonostante tutto non ne parla male, e a chi gli fa notare che è un «paladino dell’antimafia» replica che ce lo costringono. La storia la racconta al telefono dalla sua Palermo con l’inconfondibile voce Franco Maresco che lo ha voluto come protagonista prima di Belluscone (2014) e ora di La mafia non è più quella di una volta, che nonostante il premio della giuria alla Mostra di Venezia nelle sale – dove è approdato lo scorso 12 settembre – sta già sparendo come una meteora. Un peccato mortale, difatti cercatelo, vedetelo perché è davvero un film importante, e anche un «oggetto» diverso nella filmografia del regista palermitano del quale la presenza di Letizia Battaglia, fotografa e magnifica resistente, spiazza lo sguardo con l’irruenza della sua passione a resistere, a lottare.
Di Belluscone non è il sequel e nemmeno è il «solito» film sulla mafia e dintorni, ma con umorismo parla di noi, del nostro Paese, della nostra storia passata e presente, ci interroga e interroga il regista e il suo cinema. Nel frattempo Maresco sta già lavorando su un altro dei suoi amori, il jazz, con un progetto dedicato a Joe Lovano, il sassofonista americano di origine siciliana: «L’ho incontrato quando è venuto a Palermo per il cinquantesimo anniversario della morte di Coltrane, da lì facciamo un viaggio alla ricerca delle sue origini».

«La mafia non è più quella di una volta» dice il tuo film. Cosa è diventata?
Il titolo arriva dalle ultime battute di Ciccio Mira in Belluscone quando sollecitato da me a dire qualcosa che stigmatizzasse la scelta di andare dietro alla mafia risponde: «La mafia non è più quella di una volta». La sua idea è ovviamente diversa dalla mia, esprime nostalgia per una mafia «cavalleresca» in cui vigeva ancora un codice del rispetto che rimanda all’autorappresentazione mafiosa, alla leggenda dei Beati Paoli, la setta segreta che vendicava i torti subiti dai più deboli. Uno come Totuccio Contorno – che in Il traditore di Bellocchio è interpretato da Luigi Lo Cascio – si era dato il soprannome di Coriolano. È chiaro che una mafia così non è mai esistita, era solo apparenza, anche se forse alcuni comportamenti erano davvero diversi. Gaspare Mutolo – con cui prima o poi vorrei fare un lavoro – mi ha raccontato un episodio che è agghiacciante ma che illumina bene questa loro convinzione. Una volta quando era ancora un killer lui e un altro dovevano ammazzare un giovane. Lo trovarono in una friggitoria nel centro storico di Palermo che era piena di gente così aspettarono seguendolo mentre andava via insieme alla fidanzata per appartarsi in una pensioncina. Finalmente quando la coppia è uscita e si è separata lo hanno pedinato fino nel portone di casa e lì lo hanno freddato. «Vede – mi aveva detto – avevamo una sorta di delicatezza che è venuta meno con i corleonesi».

Il sistema mafioso di intrecci con la politica, controllo della vita pubblica in che modo secondo te è cambiato?
La mafia non ha più lo stesso potere di impatto e di sfascio sul territorio, quei rapporti con la politica tali da determinarne le azioni; diciamo che può essere riportata al rango di delinquenza comune – parlo di mafia non di altre organizzazioni. La globalizzazione e la trasformazione tecnologica della società hanno cancellato i riferimenti di un signore settantenne come Ciccio Mira legati ai pastori, a Riina, anche se nonostante i mezzi sofisticati oggi a disposizione latitanti come Messina Denaro che ha interessi fortissimi nell’eolico e nell’energia alternativa non riescono a catturarli – il che dimostra come esista ancora un sistema di protezione. Ciò che resta è una mentalità mafiosa – che distinguerei dalla mafia in sé – che ha superato la palma di sciasciana memoria contaminando la politica italiana, dalla «Milano da bere» a Mafia capitale. Parliamo di una trasformazione che ha prodotto una mentalità fatta di prepotenza, di corruzione, in continuo mutamento al di là della mafia stessa tanto che uno come Mira appare quasi come una scheggia impazzita fuori dalla storia. Ti faccio un esempio: qualche tempo fa allo Zen di Palermo, il quartiere che si vede nel film e dove raccolgo commenti su Falcone e Borsellino non propriamente entusiasti, durante la processione per padre Pio il corteo si è fermato facendo l’inchino non davanti alla casa del boss ma alla caserma dei carabinieri. Questo fatto ha permesso al sindaco Orlando di gridare al cambiamento epocale, di dire che la città si è rinnovata – sottinteso grazie a lui. Ma cosa significa quel gesto? Che oggi si può fare tutto come dice Ciccio Mira – persino organizzare un concerto per Falcone e Borsellino coi neomelodici allo Zen come fa lui. Ogni azione diviene mediatica, social, persino i fallimenti.

Proprio per questo non vedo «La mafia non è più quella di una volta» come un film sulla mafia ma piuttosto sul processo di anestetizzazione che nel nostro Paese viene messo in atto su qualsiasi fatto; è come se tutto venisse macinato perdendo di significato, in questo caso la lotta alla mafia, la memoria di Falcone e Borsellino, uccisi dalla mafia, il senso delle loro morti, una storia d’Italia di cui si perde la consapevolezza.
Il film inizia il 23 maggio del 2017 alle commemorazioni palermitane per Falcone e Borsellino e finisce lo stesso giorno dell’anno dopo nello stesso luogo. Ho voluto che ci fosse Letizia Battaglia perché rappresenta per me il simbolo più nobile dell’antimafia; è lei la prima a definire quella cerimonia una saga dove manca solo la porchetta indignandosi per come vengono ricordati i fatti. Quanto vediamo nel corso di quella manifestazione mostra a mio avviso il modo in cui il mondo è cambiato con la spinta della tecnologia che dà valore solo all’attimo. Non esiste più un tempo lineare, non è previsto il confronto, sono spariti i partiti o per chi ci credeva l’adesione cattolica. Lo diceva già Debord anche se quella nel mio film è una «Società dello spettacolo» dei miserabili. E allora la presenza di Letizia è ancora più importante perché infonde ironia e autoironia, è un simbolo potente, contrasta il cinismo di chi come me considera sullo stesso piano mafia e antimafia – un poco come scriveva Pasolini essere vivi o morti è la stessa cosa…

Hai un sogno, un desiderio cinismo permettendo?
Sì, vorrei tornare su Rai3 dove non mi fanno mettere piede dal 1994, nessun direttore di rete mi ha mai chiamato, solo uno, Vianello ma solo perché lo aveva incuriosito che gli avessi chiesto un appuntamento con un telegramma. Mi piacerebbe fare una serie televisiva con lo stesso titolo del film, La mafia non è più quella di una volta; credo di essere un autorevole conoscitore di cose mafiose, siciliane, palermitane, e citando ancora Sciascia la Sicilia è la metafora del mondo.

A proposito, lo stereotipo di prodotti come «Gomorra» riconosciuto dentro e fuori lo schermo, come ha cambiato l’immaginario mafioso e la sua rappresentazione? Il tuo film è in qualche modo una risposta, visto che lavora su un’iconografia antitetica.
Ho incontrato mentre giravo dei ragazzi che volevano lavorare in Gomorra, è anche vero che tra le comparse mentre anni fa nessuno accettava di interpretare un carabiniere oggi ti dicono che il killer è meglio ma se c’è libero un posto da carabiniere va bene pure. Vale insomma lo stesso principio di omologazione che regola la percezione della mafia nella realtà. Cosa nostra ha esercitato sempre una fascino, ci sono archetipi cinematografici come Il Padrino ma anche in televisione abbiamo esempi popolari in passato, penso a La Piovra, con le stesse discussioni sul fatto se erano diseducativi o meno. Quello che è cambiato è la «morale»: prima il finale condannava il «cattivo» a priori, adesso si è precipitati anche perché iconograficamente il «cattivo» ha più fascino in una terra come la nostra o come quella napoletana. Il problema però è un altro e rimanda alle persone, al modo in cui le cose vengono dette, alla conoscenza che le supporta: accetto una proposta se chi l’avanza è credibile. Mi viene in mente un vecchio film degli anni ’90, Mery per sempre di Marco Risi, ricordo che allora eravamo stati molto critici verso quell’operazione in cui – tuttavia – si avvertivano ancora gli echi della politica, di una sinistra, del Pci che stava capitolando. Dopo la diga ha ceduto e quel po’ di società è finita. Rimane solo un sistema che è una macchina per il profitto a cui la politica e la società delegano quanto non sono più capaci di esercitare. L’esempio estetico di tutto questo è Pif con La mafia uccide solo d’estate. Nel film volevo inserire una parte sulla fiction che per ragioni di durata ho tolto. Avevo chiesto ai mafiosi: «Cosa ne pensate della mafia in tv?». Il preferito era Il capo dei capi – una serie oscena moralmente e esteticamente. Poi Il cacciatore e Squadra antimafia. Gli ho chiesto: « E Pif?». Mi hanno risposto che piaceva alle mogli e ai figli. «È fatta bene» hanno detto, e per una serie che vuole essere «contro» è esemplare.

Torniamo al tuo film e a Letizia Battaglia. La sua presenza stempera il tuo sguardo cinico ma obbliga anche il tuo dispositivo cinematografico a riposizionarsi. Non hai di fronte qualcuno senza replica e all’opposto come i tutti i tuoi lavori ma una figura dialettica e vicina a te anche se con una visione del mondo diversa.
Il film era nato sulla base di un primo lavoro dedicato a Letizia, La mia Battaglia, volevo ampliarlo, così l’ho proposto alla Rai. In corso d’opera si è trasformato diventando questo film. Letizia esprime un contrappunto con le spigolature dell’intelligenza a quella che poteva essere l’unica lettura del lavoro. La triangolazione tra lei, me e Ciccio Mira permette i risvolti ironici e autoironici del film dove non ci sono solo «mostri» e «apocalissi» ma un punto di vista, quello di Letizia appunto, che io prendo in giro, con lei che replica ma che è capace anche di mettersi in discussione da sé. In qualche modo la nostra relazione diventa anche una riflessione sul valore delle parole e sul fatto che in fondo oggi – anche di fronte a sentenze storiche come quella del 24 aprile del 2018 sulla trattativa stato-mafia – di queste cose non ne vuole parlare più nessuno.

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