La realtà è meno fantasiosa, ma più imprevedibile della letteratura. Soltanto qualche settimana fa, questa conversazione sarebbe stata letta in altra prospettiva. Al contrario, in queste ore, con l’acuirsi della crisi a sud e a nord del 40° parallelo, le parole del poeta Ko Un sembrano acquisire una forza morale e civile, che altrimenti non avrebbero avuto. Il poeta coreano, infatti, come puntualizza egli stesso, in anni diversi candidato al Nobel, è stato ed è tuttora propugnatore della riunificazione delle due Coree, campione della libertà d’espressione e dei diritti umani: le sue lotte gli sono costate anni di prigione, tortura e isolamento. Le nefandezze della guerra, prima durante la cattività giapponese e poi durante il conflitto «dimenticato» nord-sudcoreano degli anni Cinquanta, hanno segnato la sua infanzia e giovinezza. È nato a Kunsan nella Cholla settentrionale, il 10 aprile 1933: l’avvicinamento alla dottrina buddista zen lo ha mondato degli istinti suicidi che per anni lo hanno perseguitato.
Ko Un è in Italia ospite «in residenza» dell’università Ca’ Foscari di Venezia (lo incontriamo a margine del Ca’ Foscari Short Film Festival, di cui è giurato). Per il suo ravvicinato ottantesimo compleanno, gli sarà assegnata la speciale onorificenza di Membro onorario del corpo accademico dell’ateneo lagunare. E il 4 giugno sarà a Milano ospite della Biblioteca ambrosiana. Le traduzioni italiane della sua copiosa e variegata opera si fermano a tre volumi, di cui l’ultimo in imminente uscita per Nottetempo; ed è la raffinata traduttrice Vincenza D’Urso, che ha curato pure L’isola che canta edito da Lieto Colle nel 2009 e Fiori d’un istante, uscito quattro anni prima per le edizioni Ca Foscarina, a rivelare due dei probabili titoli: Cosa o Che cosa.
La curiosità che i suoi versi suscitano è sorprendente al pari della sua figura; non si toglie mai il cappello, D’Urso e la moglie lo accompagnano dovunque, la lingua non è un ostacolo, l’affabilità del dialogo apparentemente pare stridere con la figura ieratica che lo fa somigliare a un Burroughs zen.
Venezia le sta suggerendo nuovi versi e poesie?
La tentazione di Venezia non è soltanto una tentazione di immagini; è dovuta anche ai suoi versi; dico però che la città lagunare non ha bisogno di poesia in quanto la incarna essa stessa. Anche Nietzsche ha cantato le gondole veneziane; io non lo farò; meglio, le tratterò in maniera molto diversa. Aggiungo che ho già scritto due poesie su Venezia, entrambe per ora sono ben nascoste, ma non so fino a quando, perché saranno le poesie stesse a non resistere e si riveleranno.
Il poeta Tranströmer ha cantato di Venezia, come già Nietzsche, e nella «Lugubre gondola» si è ispirato alle composizioni di Liszt, a loro volta ispirate da un suo viaggio in laguna. Nelle sue composizioni c’è un qualche riferimento a questi precedenti?
Le poesie vivono una esistenza propria e sono diverse, come gli occhi di ogni persona. Io stesso sono differente da qualsiasi altro poeta. Non amo essere paragonato ad altri, pur rispettandone l’opera.
Concorda con l’idea che i poeti contemporanei abbiano smarrito l’aura e il proprio ruolo nella società?
Forse proprio per la perdita di quest’aura, i poeti oggi sono più liberi. Nel passato, hanno cantato la solitudine e il dolore: ora è tempo che soffrano e si sentano soli. Quando un poeta cammina, ha dietro di sé un’ombra che lo segue. Io voglio essere l’ombra, non il poeta.
Tornando all’attualità come concilia il fatto che Park Geun-hye, la figlia del suo antagonista politico Park Chung-hee che divenne capo dello stato con un golpe e la imprigionò, è ora la presidente della Corea?
Concedetemi una risposta articolata. Quando Nehru, in India, era in prigione, scrisse una lunghissima Storia del Mondo. Durante un mio viaggio in Russia, andai a visitare la casa di Boris Pasternak. Nella sua casa, attaccata a una parete, c’era una foto di Nehru. Gli chiesi il motivo. Mi rispose che, mentre era in prigione, Nehru aveva scritto a Breznev chiedendo che Pasternak potesse ricevere la corrispondenza da tutto il mondo. Gli fu concesso, e quindi è grazie a lui che Pasternak si considerava libero. Per questo, per rispetto, teneva una sua foto alla parete.
Racconto questa storia per dire che, quando ero in carcere, non potevo né scrivere né sapere qualcosa del mondi di fuori. La prigionia è stata durissima. Se in quegli anni mi avessero permesso di usare una penna avrei potuto scrivere già allora opere migliori di quelle che scrivo oggi. Però, in quei giorni in cui non avevo né fogli né penna, ho comunque potuto sistemare dentro di me i semi di tutte le poesie e i romanzi che avrei scritto poi da libero. Credo che il governo attuale non concepisca più una prigione così dura come quella da me sperimentata negli anni settanta e ottanta. In questo periodo, forse, è il mercato a essere più spaventoso della prigione, anche della mia. Uno dei compiti più importanti è fare in modo che la Terra non sia ostaggio della violenza del capitalismo. Non mi piacerebbe vivere e sapere che un giorno che mi verrà dato un valore monetario. Anche quando me ne sarò andato, al mio cadavere verrà assegnato un «peso» in denaro.
Comunque sia, se Park Geun Hye decidesse di perpetrare le stesse politiche del padre, ciò avrebbe un significato di sconfitta. È possibileun suo governo concepito sul superamento della dittatura di suo padre di quegli anni. Ma, capita anche spesso che gli umani si rendano schiavi del passato. A nord di questa terra, in Germania, il ricordo di Hitler rimane; in Italia il ricordo di Mussolini è forse ancora più forte di quello di Gramsci, come in Russia rimane quello di Stalin. Anche in Corea rimane il ricordo di Park Chung Hee. La storia, tuttavia, non vive del passato, ma si nutre dell’oggi.
In una intervista ha affermato di aver scoperto D’Annunzio a nove anni, Tommaso Campanella a venti, Dante a venticinque, Mario Luzi a sessant’anni e di amare anche Pico della Mirandola….
Ancora prima che io diventassi poeta, all’età di nove anni nella biblioteca di mio zio vidi un libro di D’Annunzio e lo lessi in traduzione giapponese poiché eravamo in periodo coloniale. Rammento che in una poesia si raccontava di una stanza rossa. Dico questo perché la letteratura di un luogo me lo fa incontrare ancora prima che io visiti quel luogo.
Avevo circa venticinque anni quando lessi Dante, ma la sua grandezza era talmente evidente…. Una volta io e mia moglie visitammo Firenze, lì sono entrato nella sua casa. Un altro contatto con la letteratura italiana mi viene da Tommaso Campanella e nella similitudine della sua vita con la mia e con cui vorrei avere un legame di sangue. Mi piace poi Pico della Mirandola.
E con Luzi?
Vent’anni fa, quando incontrai Mario Luzi a Rotterdam, rimasi colpito dal modo disarmante con cui leggeva una poesia d’amore. Lo ho incrociato altre volte, ma è l’Italia ad avere su di me una fascinazione particolare. Persino Goethe ha tratto ispirazione dal suo viaggio in questo paese. Anche Nietzsche, senza Torino ,si sarebbe sentito insicuro. E la mia letteratura non ci sarebbe stata senza l’Italia.
Ha mai letto Leopardi visto che Nietzsche è stato uno dei suoi primi scopritori?
Non ho letto nulla di Leopardi, ovviamente ne conosco il nome. Non ci sono traduzioni nelle lingue che conosco. Questo è un mio limite poiché posso entrare in contatto con la letteratura italiana solo in traduzione.