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L’Italia di rugby non «tira più»

L’Italia di rugby non «tira più»

Sport Troppe sconfitte creano disaffezione nel pubblico degli azzurri che domenica sfidano all'Olimpico gli irlandesi nel terzo turno del Sei Nazioni. Sabato 23 in campo Francia Scozia e Galles Inghilterra

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 23 febbraio 2019

Due sabati fa gli azzurri hanno disputato contro il Galles la loro prima partita casalinga del Sei Nazioni di fronte a 38 mila spettatori. Molti di loro erano gallesi. Quattro anni fa, per assistere alla medesima partita, erano in 52 mila. Lo scorso anno per i due match casalinghi contro Inghilterra e Scozia sugli spalti c’erano oltre 60 mila persone. Se dobbiamo prendere sul serio queste cifre non possiamo che constatare una perdita secca di quasi un terzo del pubblico della nazionale italiana di rugby. Lo scorso novembre, in una sfida di richiamo come quella con gli All Blacks, gli spettatori erano poco più di 50 mila: qualcuno forse ricorderà con nostalgia gli 80 mila che affollarono San Siro nel 2009.

Gli azzurri non “tirano” più, o almeno non come un tempo. Troppe sconfitte, molte delusioni, forse anche un po’ di disaffezione. In uno sport che ha sposato il professionismo e ha deciso di subordinare ogni sua scelta alle ragioni dell’audience e del denaro, un calo di interesse non può essere in alcun modo preso alla leggera: se i conti non quadrano, prima o poi arriverà qualcuno a chiedertene ragione.

Martedì 29 gennaio, a pochi giorni dall’inizio del torneo, il quotidiano britannico The Independent ha dato il via al tiro al piccione. Un articolo firmato dal columnist Sam Peters ha posto la questione senza mezze misure: con tre whitewash consecutivi, tredici cucchiai di legno, soltanto 12 successi su 95 partite, l’Italia non ha alcun motivo per poter essere considerata un membro permanente nell’esclusivo club del Sei Nazioni. Dunque, sostiene Peters, prima o poi bisognerà considerare l’opportunità di un meccanismo di promozione e retrocessione. Insomma, non basta aver battuto a novembre la Georgia, la più accreditata tra le concorrenti per un posto nel Sei Nazioni: la questione rimane aperta e le due sconfitte con Scozia e Galles nelle prime due giornate del torneo la ripropongono con forza. Non è il caso di fare spallucce e nemmeno di disquisire sulla perfidia albionica: senza una vittoria le quotazioni dell’Italia scenderanno ancora e il suo pur fedele pubblico ne prenderà atto.

Tutti considerano innovativo ed eccellente il lavoro fin qui svolto da Conor O’Shea per dare al rugby italiano una nuova struttura tecnica e organizzativa. Il problema è che i risultati sul campo non si sono ancora visti. Sergio Parisse, interpellato dall’Independent, ha dichiarato: “Avrei voluto che i cambiamenti portati da O’Shea nel corso di questi tre anni fossero avvenuti prima”. Forse il problema è proprio questo: il rugby italiano ha accumulato un ritardo che potrebbe essere incolmabile.

Un ritardo da colmare

L’Italia conquistò a suon di successi un posto nel Sei Nazioni negli anni tra il 1995 e il 1998. Non scordiamoci queste date. In quel periodo gli azzurri guidati da Georges Coste batterono due volte l’Irlanda (1995, 1997), una volta la Francia (1997) e infine la Scozia nel gennaio del 1998. Era la nazionale di Dominguez, Vaccari, Giovannelli, dei fratelli Francescato e Cuttitta. Ma non solo. Per quasi un decennio, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, in Italia erano venuti a svernare i migliori giocatori dell’emisfero Sud, fuoriclasse come Campese, Bootha, Lynagh, Kirwan, Shelford, Gerber e altri ancora. Passavano l’inverno australe giocando in patria nei loro club, e quello boreale in Italia, disputando il nostro campionato. E pagati, sia pure sottobanco: il nostro rugby era il solo a praticare un professionismo quasi alla luce del sole e ne trasse un certo giovamento: quando giochi insieme ai più forti non puoi che migliorare.

Il punto di svolta fu il 1995: il professionismo fu ammesso e il rugby cambiò volto. Nulla sarebbe stato più come prima. Ci volle però qualche anno. Bisognava organizzarsi, darsi nuove strutture, cominciare a pensare in grande; cosa che gli anglosassoni sanno fare molto bene, gli italiani assai meno.

Le grandi nazioni dell’emisfero Sud si organizzarono da subito: Sudafrica, Nuova Zelanda e Australia formarono un consorzio (Sanzar) e trovarono una sponda finanziaria nella tv a pagamento (Sky) di Rupert Murdoch. Con il denaro in cassa vararono nel 1996 un campionato per nazioni (Tri Nations) e uno per club (il Super Rugby). In seguito si sarebbero aggiunti gli argentini e poi i giapponesi.

In Europa si procedette in altro modo. I francesi avevano già il loro campionato nazionale, che divenne il Top 14. Gli inglesi diedero vita al loro campionato professionistico, la Premiership, nel 1996. Galles, Scozia e Irlanda formarono le franchigie professionistiche e crearono, nel 2001, la Celtic League. Le coppe europee, in primis la Heineken Cup poi divenuta European Champions Cup, adeguarono il loro formato ai nuovi scenari.

Insomma, il passaggio al professionismo nel rugby fu davvero un big bang dal quale si generarono gradualmente nuove galassie alimentate da un flusso costante di soldi. Da questo complesso processo, che prevedeva un salto concettuale sia sul piano organizzativo che su quello culturale, il rugby italiano rimase abbastanza ai margini, vivendo di luce riflessa. Da allora, e nonostante gli sforzi, il nostro campionato per club è rimasto a un livello semi-professionistico; e le due franchigie, Benetton Treviso e Zebre Parma, una volta entrate nel circuito delle competizioni europee più importanti, hanno navigato in acque tempestose, patendo sconfitte e sofferenze finanziarie.

La nazionale italiana ha raggiunto il massimo dei risultati nel periodo di transizione dal dilettantismo al professionismo, poi è cominciata la frenata. I top player stranieri non mettono più piede in Italia perché altrove sono pagati di più, i migliori degli italiani vanno a giocare in Francia o Oltremanica. A Treviso e Parma la capienza degli impianti non raggiunge i settemila posti quasi mai pieni. Si discute, si litiga, ci si divide per regioni e poi per provincie. Gli altri corrono e conquistano nuovi territori, noi restiamo inchiodati in una periferia sempre più distante in cui ogni piccolo passo in avanti deve misurarsi con la rapidità dei progressi altrui.

Azzurri contro l’Irlanda

Siamo al terzo turno del Sei Nazioni. L’Inghilterra guida la classifica con 10 punti: ha vinto a Dublino e travolto i francesi 44-8, un punteggio umiliante. Sotto di lei, a 8 punti, c’è il Galles: due successi ma nessun punto di bonus. La Scozia è terza con 5 punti (il bonus è stato conquistato contro gli azzurri) e una sconfitta, l’Irlanda quarta (4 punti). La Francia è penultima (due sconfitte ma un punto di bonus), chiude l’Italia con zero punti.

Le partite in programma sabato 23 sono Francia-Scozia (Dmax: 15.15) e Galles-Inghilterra (Dmax: 17.45). Entrambe importanti. Per i francesi è già tempo di resa dei conti. Jacques Brunel è stato messo sulla graticola per via delle sue scelte tecniche e tutta la squadra è finita sotto il fuoco incrociato della critica, a cominciare dal capitano Guirado. Ci sarà una nuova mediana, formata da dalla coppia di Tolosa, Antoine Dupont e Romain Ntamack: quest’ultimo, solitamente schierato al centro, ha soltanto 19 anni. La Scozia deve rinunciare per infortunio al suo regista, Finn Russell, che sarà sostituito da Peter Horne. I pronostici sono aperti, ma la Scozia non vince a Parigi dal 1999.

La sfida di Cardiff vede in campo le due sole squadre imbattute di questo Sei Nazioni, divise dalla più acerrima delle rivalità. Chi vincerà metterà una seria ipoteca sulla vittoria finale, potrà pensare a un eventuale Grande Slam, rimarrà in corsa per la Triple Crown, il trofeo che premia la squadra delle isole britanniche che riesce a battere tutte le altre union. E’ il piatto forte di questo terzo turno, un appuntamento imperdibile.

Domenica (Dmax: 16.00) l’Italia sfida all’Olimpico gli irlandesi, campioni in carica. Non tira buona aria per gli azzurri, che devono rinunciare al loro capitano, Sergio Parisse, colpito alla testa durante un match di campionato e sottoposto a controlli di sicurezza. Oltre a Parisse mancherà anche Sebastian Negri, febbricitante. Della terza linea azzurra titolare in questo Sei Nazioni rimane in campo soltanto Abraham Steyn, che sarà affiancato da Maxime Mbanda e Jimmy Tuivaiti. Un problema in più in una sfida contro un avversario molto aggressivo nei punti di incontro come l’Irlanda. Rientra Tito Tebaldi nel ruolo di mediano di mischia. Dopo la sconfitta patita in casa contro gli inglesi, gli uomini in verde non faranno alcun sconto: devono vincere e, se possibile, segnando almeno quattro mete per agguantare anche il punto di bonus.

Italia: Hayward; Padovani, Campagnaro, Morisi, Esposito; Allan, Tebaldi; Steyn, Mbanda, Tuivaiti; Budd, Ruzza; Ferrari, Ghiraldini, Lovotti

Irlanda: Kearney; Earls, Farrell, Aki, Stockdale; Sexton, Murray; Murphy, O’Brien, O’Mahony; Roux, Dillane; Furlong, Cronin, Kilcoyne.

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