L’Isis è a Damasco: il califfato entra a Yarmouk
Siria Secondo l'Olp, gli islamisti hanno occupato metà del campo assediato da due anni. Il califfo è a pochi km dal cuore del potere di Assad. A Tikrit, ancora screzi tra Baghdad e Washington sulla liberazione della città
Siria Secondo l'Olp, gli islamisti hanno occupato metà del campo assediato da due anni. Il califfo è a pochi km dal cuore del potere di Assad. A Tikrit, ancora screzi tra Baghdad e Washington sulla liberazione della città
Il califfato è arrivato a Damasco. È arrivato nel campo profughi di Yarmouk. Un anno fa il mondo intero si indignava per i suoi fantasmi, ritratti da una foto dell’Onu come ombre, i volti scavati dalla fame: centinaia di rifugiati palestinesi, affamati dall’assedio, in fila per avere un po’ di cibo, per sopravvivere. Lo sdegno passò, Yarmouk finì nell’angolo. Ora torna, centrale: buona parte del più grande campo profughi del Medio Oriente, a sud di Damasco, è finita in mano al califfato.
La notizia è stata data dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e subito rimbalzata dalle agenzie stampa di tutto il mondo: «Sono entrati dall’area di Hajjar al-Aswad», racconta un testimone. «Miliziani dell’Isis hanno lanciato l’assalto questa mattina contro Yarmouk – ha detto Anwar Abdel Hadi, direttore degli affari politici a Damasco per l’Olp – Hanno preso oltre la metà del campo».
Gli scontri sarebbero ancora in corso, tra il gruppo palestinese Akhnaf Beit al-Maqdis (vicino ai Fratelli Musulmani) e lo Stato Islamico, già presente con pochi miliziani, ma ora deciso a lanciare l’offensiva. Secondo fonti locali, i qaedisti di al-Nusra si sarebbero uniti all’Isis. Nel campo restano intrappolate 18mila persone, delle 180mila residenti prima dello scoppio della guerra civile in 2 km quadrati di spazio. Fuori a controllare il campo e impedire la fuga delle famiglie rimaste sta l’esercito di Damasco; dentro, a stringere la morsa e confiscare il poco cibo a disposizione, i ribelli. A marzo dello scorso anno, a seguito di un accordo tra Damasco e Esercito Libero Siriano, i miliziani asserragliati a Yarmouk avevano annunciato la ritirata, nel campo sarebbero dovuti rimanere solo i gruppi palestinesi. Ma poco era cambiato: gruppi delle opposizioni sono rimasti all’interno, con la parte del leone giocata da al-Nusra.
Ieri il dramma dei profughi palestinesi è diventato incubo: l’Isis è entrato nel campo, sfida aperta al presidente Bashar al-Assad. Il centro di Damasco dista pochi chilometri dal centro della capitale: mai il califfato si era avvicinato tanto al cuore del potere centrale, rimanendo per ora arroccato a nord, nel corridoio di territorio che da Raqqa (ufficiosa capitale Isis) arriva al confine con l’Iraq. Un duro colpo per Assad, sferrato a pochi giorni dalla caduta in mano di al-Nusra della città di Idlib, altra comunità controllata dal governo a nord ovest del paese.
Sul The Guardian, l’analista siriano Hassan Hassan spiega che l’incursione a Yarmouk potrebbe essere stata organizzata da cellule dormienti dell’Isis già presenti a Damasco e rinforzate dall’arrivo di miliziani dal confine libanese. Ma che ormai i contendenti in campo siano rimasti islamisti e governo è chiaro. Le opposizioni moderate, che dettano i tempi di un negoziato mai partito, sono scomparse dal terreno, lasciando ad al-Nusra e al califfato (uniti da un patto di non aggressione siglato lo scorso anno) spazio libero nella lotta contro Assad.
E se l’Isis segnava una vittoria dall’enorme potenziale strategico nella roccaforte della famiglia Assad, dall’altra parte del confine il califfo era costretto alla resa a Tikrit. Ieri il ministro della Difesa iracheno, Khalid al-Obeidi, ufficializzava la liberazione della città sunnita: «Una vittoria superba», così al-Obeidi ha definito la cacciata degli islamisti dalla città natale dell’ex rais Saddam Hussein. Una vittoria frutto della controffensiva guidata dall’Iran alla testa di 20mila miliziani sciiti iracheni, seppure nel corso degli ultimi giorni l’aviazione Usa abbia partecipato bombardando le postazioni islamiste dentro Tikrit.
Gli screzi tra Baghdad e Washington, generati prima dal rifiuto Usa a partecipare alla controffensiva e poi al diktat imposto alle milizie sciite (costrette a ritirarsi dalla prima linea durante i raid), non vengono però sepolti dalla liberazione della città: se martedì il premier al-Abadi si presentava al popolo iracheno per annunciare la ripresa di Tikrit, la Casa Bianca ieri abbassava i toni. Secondo l’amministrazione Usa, «le forze irachene sono avanzate a Tikrit per liberare il centro della città», ma gli scontri con gli islamisti non sarebbero cessati.
Gli islamisti, dietro di sé, hanno lasciato ancora morte: i miliziani sciiti e le truppe governative entrate a Tikrit stanno trovando sulla loro strada veicoli imbottiti di esplosivo e palazzi abbandonati pieni di ordigni. E accanto al pericolo di nuove vittime provocate dal lascito jihadista si aggiunge il timore della popolazione sunnita della città di rappresaglie e punizioni collettive imposte dai miliziani sciiti entrati a Tikrit. È successo in passato, in altre comunità sunnite liberate dalla morsa dell’Isis; potrebbe accadere ancora, acuendo i settarismi di un paese devastato, tra le principali fonti di instabilità.
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