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L’Iraq del post-Isis affida alle urne il sogno dell’unità

L’Iraq del post-Isis affida alle urne il sogno dell’unitàDue poliziotti iracheni mostrano il dito sporco di inchiostro: polizia ed esercito hanno votato giovedì – Ap

Elezioni Oggi il paese va al voto per le prime parlamentari dopo l'invasione dello Stato Islamico. La strana alleanza comunisti-sadristi, la lista mista del premier al-Abadi: obiettivo dichiarato un futuro non settario. Ma restano corruzione e appartenenze etniche e confessionali

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 12 maggio 2018

Fuori dalla sede del Partito comunista iracheno, a Baghdad, sventolano le bandiere della Sairoun Alliance, la coalizione nata in occasione delle parlamentari tra il movimento del religioso sciita al-Sadr e la fazione marxista.

Dentro, i poster di membri del partito uccisi o arrestati nelle varie ondate repressive. Nessun riferimento all’Islam, caratteristica che ha accompagnato la lunga vita, quasi centenaria del Pci, e che muove dubbi sulla scelta di unire le proprie forze a quelle di un movimento religioso.

Il segretario, Raid Jahed Fahmi, è di opinione diversa: al centro dell’alleanza tra laici e islamisti, tra comunisti e sadristi, stanno i poveri, la classe operaia e una cittadinanza devastata economicamente e socialmente da corruzione e disoccupazione: «Sempre più persone – dice in un’intervista a Middle East Eye – iniziano a capire che i loro problemi non dipendono dalle differenze tra comunità, ma dall’incapacità e la corruzione del governo, da cattive politiche economiche. Molte idee di Marx sono attualissime, specialmente quelle sulla globalizzazione. Siamo ancora ispirati dall’approccio marxista, nel modo di analizzare la società, la proprietà, la natura delle contraddizioni».

Tra pochi giorni le urne daranno il verdetto. Oggi si aprono: 24 milioni di iracheni sono chiamati a eleggere il nuovo parlamento, 329 deputati che nomineranno primo ministro e presidente. Il voto è iniziato già giovedì per 800mila membri di polizia ed esercito e per 850mila di cittadini all’estero.

A questi si aggiungono milioni di sfollati interni su cui i numeri variano, come variano le previsioni di effettiva affluenza alle urne: se nel 2014, con l’inizio dell’occupazione dell’Isis dell’ovest del paese, gli sfollati raggiunsero la cifra record di sei milioni, oggi sono calati (2,9 milioni secondo l’Unhcr, 2,6 per l’agenzia Ocha).

Nei giorni scorsi la Commissione elettorale ha garantito il diritto al voto, dopo che la stampa aveva denunciato l’impossibilità per chi non risiedeva più nel proprio territorio di infilare la scheda nell’urna. In particolare per chi viveva nelle zone contese tra il governo centrale di Baghdad e il governo regionale del Kurdistan, ovvero Kirkuk e Sinjar. Secondo la Commissione non c’è da temere: gli sfollati potranno votare in 166 seggi dedicati in 70 campi nel Kurdistan iracheno.

Difficile capire che ne sarà delle centinaia di migliaia di sfollati che non hanno mai trovato ospitalità in campi riconosciuti, bloccati in una terra di nessuno, a sud di Kirkuk e a ovest di Mosul. Sono sunniti, provenienti dalle province di Anbar e Ninewe, le più colpite dall’occupazione del «califfato», liberate nel corso degli ultimi due anni ma mai ricostruite.

Al centro della sfida elettorale sta proprio il post-Isis, variamente declinato: la ricostruzione fisica, ma soprattutto quella politica, con i tentativi dei vari fronti di superare i settarismi che hanno dilaniato l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. A contendersi i 329 seggi saranno 6.990 candidati di 87 partiti diversi, di cui 2.011 donne a cui saranno garantiti 83 seggi (il 25%). Altri nove seggi sono riservati alle minoranze.

Sul fronte sciita lo scontro principale sarà interno all’ex coalizione Dawa: il premier uscente al-Abadi si presenta con la Nasr Coalition (Vittoria) contro il predecessore al-Maliki a capo di State of Law.

Il primo porta alle urne il suo bagaglio: la (quasi) sconfitta dell’Isis, l’evitata indipendenza curda, la risalita della produzione petrolifera e il manifesto Vision 2030, riforme ispirate a quelle saudite condite con una caccia al voto sunnita in chiave anti-settaria con candidati misti e provenienti da tutte e 18 le province irachene e (prima volta nella storia) comizi nelle zone curde e sunnite. Ma porta anche aumento della disoccupazione, calo dei salari e corruzione rampante.

Terzo incomodo sarà la Sairun Coalition di al-Sadr e Pci, con il primo interessato a solidificare la figura di leader non settario ma nazionale costruita negli anni mobilitando decine di migliaia di persone in campagne anti-corruzione.

E infine, quarta formazione sciita, le unità di mobilitazione popolare, le milizie legate all’Iran che puntano al riconoscimento politico per il ruolo nella campagna di liberazione dall’Isis: si presentano con la coalizione Fatah (Conquista), guidata da Hadi al-Amiri, capo delle milizie Badr, le più potenti oltre che le più direttamente legate a Teheran, armate e addestrate dalle unità al Quds del generale Suleimani. Una fedeltà che apre a un ampliamento della già radicata influenza iraniana (come accadrebbe con al-Maliki), a cui altre correnti (lo stesso al-Abadi ma anche al-Sadr) hanno fatto muro presentandosi nei mesi scorsi alla corte saudita.

Per i curdi correranno i due rivali di Puk e Kdp, oltre al partito di opposizione Gorran, entrambi indeboliti dal fallimentare referendum per l’indipendenza del settembre 2017 e delle faide interne ai clan di riferimento, Talabani e Barzani.

Chi punta alla rinascita è il frammentato fronte sunnita, marginalizzato dal governo sciita post-invasione Usa e appesantito da una leadership ormai poco credibile, dalle limitanti appartenenze tribali e dall’incapacità di difendere i territori dall’Isis. Due le liste principali: al-Qarar al-Iraqi, con a capo l’attuale vice presidente al-Nujaifi e il fratello governatore di Mosul, e Wataniya Alliance dello speaker del parlamento al-Jabouri. Deboli e divisi: più di un analista prevede che tanti sunniti voteranno al-Abadi, comunque popolare in tutto il paese.

L’orizzonte politico è dunque destinato a cambiare, ad accantonare il motto «demografia è democrazia», scusa a governi esclusivamente sciiti? Improbabile: le nuove posizioni anti-settarie di leader storicamente portatori di interessi di parte, confessionali o tribali, appare un mero make up retorico necessario a invogliare una popolazione delusa, stanca di divisioni, attentati, invasioni. E su cui ora più di prima pesano i potenti vicini, Iran e Arabia saudita.

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