Il nostro paese è ancora capace di organizzare eventi di assoluto livello, come la recente monografica su Donatello a Palazzo Strozzi, quella su Moroni attualmente in corso alle Gallerie d’Italia a Milano o la straordinaria mostra sul Maestro di San Francesco che inaugura proprio oggi (con un titolo un po’ infelice) alla Galleria Nazionale dell’Umbria. Non c’è da stare neanche troppo allegri, però, visto che gli ultimi ministri si sono distinti più per certe nomine discutibili e alcuni slogan iperprovinciali, né si può negare che il mercato delle mostre segua ormai uno schema al ribasso, con le sale stipate di opere e carenti di idee, gli assessori (spesso improvvisati) alla cultura che sbandierano i numeri «eccezionali» (e quasi sempre gonfiati) degli ingressi o il capolavoro «iconico» ottenuto dall’estero. Questa deriva desolante è in parte bilanciata dai casi virtuosi di cui si è detto, ma anche dalle buone pratiche di molti funzionari e funzionarie che ogni giorno portano avanti un inestimabile lavoro di tutela e di vera valorizzazione del patrimonio storico-artistico diffuso su tutto il territorio.

Tra questi spicca il nome di Massimo Medica, uno degli ultimi e più brillanti allievi di Carlo Volpe, studioso raffinato e conservatore accorto, che per più di vent’anni ha diretto in maniera egregia i Musei Civici d’Arte Antica della città di Bologna. Tra i suoi meriti va senz’altro lodata la capacità di progettare e proporre un modo diverso di fare mostre, intese come occasioni di pura ricerca e di divulgazione al pubblico, sempre focalizzate su un tema preciso e giustamente legato alla storia locale, eppure in grado di attrarre l’attenzione e il plauso dei maggiori esperti d’Europa e d’oltreoceano. Mostre realizzate spesso con povertà di mezzi, ma con larghezza di vedute, buon gusto e intelligenza critica: insomma, un modello alternativo e purtroppo minoritario, che non necessita di gran pompa mediatica e di milioni gettati al vento, ma che ottiene risultati di grande valore scientifico e culturale.

Dopo l’ottima rassegna sul Duecento bolognese, ideata assieme a Eugenio Riccomini nell’ormai lontano 2000, Medica ha appunto inanellato una serie di importanti mostre-dossier, composte da un numero sempre ridotto di opere, ma che tuttavia hanno lasciato un segno negli studi e nella memoria dei visitatori più attenti. Si possono citare, tra le altre, quella su Giotto e le arti a Bologna al tempo di Bertrando del Poggetto (2005-’06) o quella che raccoglieva quasi tutte le Madonne del grande Vitale degli Equi (2010-’11), ma altrettanto indimenticabile è la mostra organizzata con Daniele Benati nel 2014-’15, che per la prima volta approfondiva la figura di Giovanni da Modena, ovvero del più estroso campione del tardogotico emiliano.

Questa serie davvero ammirevole si chiude più che degnamente con un ultimo capitolo intitolato Lippo di Dalmasio e le arti a Bologna tra Trecento e Quattrocento, mostra curata dallo stesso Medica e da Fabio Massaccesi, ancora aperta fino al 17 marzo nelle sale del Lapidario del Museo Civico Medievale. Si tratta della prima monografica dedicata a maestro Lippo, discendente della prestigiosa famiglia ghibellina degli Scannabecchi, figlio del pittore Dalmasio e nipote di uno degli artisti più celebri del Trecento bolognese, ovvero Simone di Filippo, detto dei Crocifissi. Il percorso espositivo si articola in quattro sezioni e raccoglie una trentina di manufatti, tra dipinti, sculture e manoscritti miniati, con l’intento dichiarato e metodologicamente ineccepibile di mettere a confronto la produzione di Lippo con quella di alcuni pittori del suo tempo, ma anche con opere di maestri altrettanto nobili e specializzati in altre forme d’arte. Non mancano neanche la novità assolute, come la bella Croce dipinta di Casa Siviero a Firenze, restituita a Lippo da Benati ed Emanuele Zappasodi.

Particolarmente appropriata è poi la presenza di un affresco staccato del pistoiese Antonio Vite, chiamato in mostra per evocare il problema aperto degli esordi di Lippo, che nacque a Bologna subito dopo il 1350, ma che risulta attestato proprio a Pistoia tra il 1377 e il 1387. Nonostante le molte imprese documentate e le diverse proposte attributive non è ancora possibile individuare un’opera certa di questa prima fase svolta oltre Appennino, ma è tuttavia chiaro che questo lungo tirocinio toscano ebbe un impatto determinante sulle scelte stilistiche e tecniche del maestro bolognese. Come sottolinea brillantemente Massaccesi, è significativo che già Malvasia lodasse la «tenerezza» e l’«impasto di buon colore» di un affresco (ora perduto) di Lippo, caratteristica che sembra rimandare a quel «dipingere dolce e tanto unito» diffuso tra un certa schiera di maestri toscani e che lo stesso Lippo poteva aver assimilato a Pistoia attraverso gli allievi di Nardo di Cione, come Niccolò di Tommaso.

È un fatto che il linguaggio di Lippo si sviluppi in termini meno fantasiosi e sanguigni rispetto all’autoctona tradizione vitalesca, proprio perché si aggancia a una matrice più giottesca, filtrata dagli Orcagna, ed è forse per questo che le figure lippesche si distinguono per «un certo ché di sovrumano» e per una grave «purità» capaci di colpire – come spiega nel saggio mirabile Daniele Benati – perfino i pittori moderni, da Denijs Calvaert al divino Guido Reni. Le propensioni filotoscane di Lippo si riflettono anche su certe tipologie iconografiche e sulla foggia di alcune carpenterie, sapientemente indagate da Gianluca del Monaco, ma anche sulle tecniche di lavorazione dell’oro e sulla scelta degli stessi punzoni.

Sono dunque tante le aperture offerte da questa mostra bolognese, ma è soprattutto la qualità dei dipinti esposti a riscattare finalmente l’immagine troppo stantia di quel Lippo «dalle Madonne», che venne codificata fin dai tempi della Controriforma, ossia del «buono et santo pittore» che praticava digiuni e che ogni mattina, prima di mettersi a dipingere icone miracolose, faceva devotamente la comunione. Emerge invece la figura di un artista inventivo e fieramente «civico», ma anche di un poeta inatteso della fase autunnale del Medioevo padano.