Nel 2011 Giovanni Agosti pubblicava un incisivo pamphlet, tratto da una serie scritta per «Alias», sullo scadimento della vita culturale ambrosiana, dal titolo Le rovine di Milano, dove una parte importante era riservata alle mostre d’arte, ospitate magari in istituzioni pubbliche, ma organizzate non dai funzionari delle stesse bensì da società di servizi. Andando oggi da Roma a Milano, in qualunque momento dell’anno, non si può non piangere sulle macerie – altro che rovine – dell’Urbe.

Filippo e Filippino Lippi. Ingegno e bizzarrie nell’arte del Rinascimento, a cura di Claudia La Malfa (autrice praticamente di tutto il catalogo, edito da Gangemi, con note e bibliografie pasticciate), aperta ai Musei Capitolini fino al 15 agosto, non è una mostra focus, poiché ha per oggetto tutta la carriera di questi due giganti del Quattrocento, entrambi con un ricco corpus di opere giunte a noi (con altri pittori di quel secolo siamo stati meno fortunati, si pensi ai Ferraresi): e questo, però, con una ventina appena di numeri di catalogo, compresi i disegni. Non c’è un racconto nuovo, un taglio specifico, ma l’ambizione – o hybris – di ricostruire con poco più di dieci dipinti, scelti senza un criterio che non sia quello della disponibilità al prestito, quelle due altissime parabole artistiche.

Forse solo con Nicola e Giovanni Pisano, e poi con Orazio e Artemisia Gentileschi, abbiamo casi simili, di padre e figlio/a, della stessa straordinaria caratura, ed è sempre un piacere, certo, vedere opere che sono tutte o quasi di eccezionale qualità: la mostra si apre, ad esempio, con un’importante sequenza di dipinti della giovinezza del primo (1430 circa), che dimostrano come Filippo, frate carmelitano, dialogasse da pari a pari in quel momento con Masaccio, Donatello e Luca della Robbia. Si tratta peraltro del tema già magistralmente approfondito in una mostra – quella sì focus – curata da Enrico Parlato a Palazzo Barberini nel 2017-’18, del tutto taciuta nel presente catalogo. C’è poi l’occasione di ammirare le due superbe tavole con i Quattro Padri della Chiesa (1435-’38 circa) che, approdate all’Accademia Albertina di Torino, non sono certo note al grande pubblico, e che per la monumentalità, la resa dei panneggi, la ricchezza cromatica e l’intensità dell’espressione fisiognomica, restituirebbero quasi da sole la grandezza di Filippo. Il quale di sicuro esce meglio dalla mostra rispetto al geniale figlio.

La figura di Filippino è introdotta attraverso un documento eccezionale (Archivio di Stato di Firenze), ovvero la denuncia del 1461 delle continue visite che il padre faceva al monastero di Santa Margherita a Prato, dove la monaca Lucrezia Buti stava crescendo il figlio che gli aveva dato: grazie all’intervento di Cosimo de’ Medici, Pio II sciolse allora dai voti padre e madre. Leggendo quelle righe («E ’l detto frate Filippo à avuto uno figliuolo maschio… E detto fanciullo à in casa: è grande, e à nome Filippino») quasi si toccano con mano le vite di quegli uomini; ma era opportuno – solo per cercare di arricchire il percorso – esporre anche gli assai più prosaici documenti di pagamento a Filippo per gli affreschi di Spoleto, nemmeno riprodotti? Di Filippino si sottolinea poi l’eccezionalità della produzione grafica, alla quale giustamente è stata dedicata nel 1998 una mostra al Metropolitan Museum: ai Capitolini, però, di quest’aspetto della sua produzione si può apprezzare appena una fievole eco, e non c’è un solo foglio che strappi l’applauso.

L’ultimo acuto della mostra è con i due tondi dell’Annunciazione di San Gimignano 1483-’84, che sarebbe stato bello vedere a confronto con la redazione dello stesso soggetto del padre (Palazzo Barberini), o con una di colui che anni prima era stato l’alter ego di Filippino (e viceversa), ovvero Botticelli; prestiti difficili, è vero, ma considerato l’abuso che nella mostra si è fatto delle riproduzioni, tanto valeva…
L’ultima sala, appunto, è ‘dedicata’ alle gigantografie degli affreschi di Filippino nella Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva, che dista dieci minuti a piedi dalla mostra: erano necessarie?