Nativa di New York, la critica e attivista Lucy R. Lippard si è trasferita in Nuovo Messico nel 1992, una scelta che ha avuto almeno tre conseguenze profonde sulla sua visione artistica. Anzitutto, ha diretto l’attenzione sugli elementi naturali quanto antropici: «Terra (miniere, land art, argilla cruda, archeologia), aria (respiro, inquinamento, morte), fuoco (riscaldamento globale) e acqua (dall’alto, immagazzinata in basso)». In seguito, ha ripensato il paesaggio non più orizzontalmente ma verticalmente, nella sua dimensione stratigrafica: le cave di ghiaia sono città capovolte, le miniere immagini rovesciate di paesaggi urbani, l’estrazione un innalzamento di segno negativo. Uno sguardo archeologico che guida le riflessioni del libro da cui sono tratti questi passaggi, Undermining. A Wild Ride through Land Use, Politics, and Art in the Changing West (2014).

Libro d’artista, è una creative non-fiction (che la stessa autrice non saprebbe meglio precisare) costruita su due registri paralleli nella parte superiore e inferiore della pagina: in basso scorre il testo, in alto una carrellata di immagini, espressione del nuovo paesaggio in cui Lippard è immersa. Un tentativo verbo-visuale di ripensare l’eredità della Land art. È la terza conseguenza del trasferimento nello Stato a forte presenza ispanica e nativo- americana: una critica delle «sculture massicce all’aperto battezzate earthworks», note attraverso le riproduzioni aeree in riviste e cataloghi piuttosto che per esperienza diretta. Come se, per semplificare, anziché vivere sul posto ci limitassimo a osservarlo alla finestra. Queste sculture esercitano infatti un potere proporzionale alla «distanza dalle persone, dalle questioni ambientali, e persino dai luoghi». «La Land Art tende a essere site-specific ma non apertamente place-specific. La geologia, la storia e l’identità locali sono secondarie, quando riconosciute. I residenti locali sono considerati in primo luogo nel loro ruolo di lavoratori e di pubblico occasionale».

Lippard preferisce la land use, «un sostituto più realistico della nozione troppo facilmente romanticizzata di land e di earth». La Land art sarebbe in finale un’«arte pseudo-rurale realizzata da un quartier generale metropolitano, una sorta di colonizzazione in sé. Offre un antidoto a un paesaggio urbano riempito di arte e concorrenza visiva». Riprendendo la nozione di «paesaggio culturale» (John Brinckerhoff Jackson, che viveva in Nuovo Messico) e implicandosi nella politica locale, Lippard finisce per difendere una land art vernacolare che «potrebbe includere la commemorazione che guarda alla scala più piccola, alle nozioni di natura basate sulla terra, ricordando le piccole fattorie e le terre comuni, le storie di luoghi ed ecosistemi che stanno scomparendo». Al proposito ricorda spesso il The Center for Land Use Interpretation (CLUI), riuscito amalgama di arte e geografia fondato nel 1994 da Matthew Coolidge e Sarah Simons. Nel suo progetto di una Land art vernacolare Lippard si allinea così al dibattito sull’ecologia e sul cambiamento climatico, su una eco-art attenta all’ecosistema, che è sempre locale e specifico. Abbiamo la natura da perdere, aggiunge citando Timothy Morton, ma l’ecologia da guadagnare.

Tuttavia il ripensamento di Lippard si spinge ancora più in là, fino a confessare che agli interventi artistici nelle lande desolate preferisce ormai gli interventi aborigeni e la rock art, ovvero incisioni rupestri e pittogrammi, già al centro di un suo libro sulla preistoria del 1983. Se le opere di Land art sequestrano dispoticamente tutta la nostra attenzione, «l’arte rupestre ci assorbe silenziosamente nel suo luogo, anche quando capiamo molto poco dei messaggi che riceviamo».