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Lionel Sabatté nel bunker di Bédeilhac

Lionel Sabatté nel bunker di Bédeilhac

Cristalli liquidi L'artista di Tolosa ha lavorato nell’ampia volta della grotta occitana

Pubblicato circa un anno faEdizione del 3 settembre 2023

L’Ariège è una zona montagnosa e rurale, mal connessa col resto della Francia quanto antica, dal parco della Preistoria di Tarascon alle grotte di Niaux, Mas-d’Azil e Bédeilhac. Le concrezioni geologiche di quest’ultima mostrano il paziente lavoro dell’acqua sulla pietra calcarea, formatasi dall’accumulo di sedimenti di organismi marini, scheletri di alghe, coralli e gusci di animali. Sono sculture naturali formatesi nell’arco di 125 milioni di anni fin da quando, 85 milioni di anni fa, le acque si ritirarono lasciando emergere i Pirenei. Scoperta nel 1773, la grotta di Bédeilhac è esplorata a partire dal 1861 e classificata monumento storico nel 1929, quando vengono rinvenuti dei rarissimi bassorilievi modellati in argilla. Oltre all’arte parietale tipica del magdaleniano di 16000 anni fa – tra cui animali e figure antropomorfe, mani e sessi femminili –, non mancano dei rilievi animali realizzati modificando le anfrattuosità della roccia per renderli più facilmente identificabili. L’uomo del Cro-Magnon dimostra così un rapporto attivo con lo spazio della grotta e una libertà di rappresentazione non dettata da quanto le asperità rocciose sembrano suggerire.

Per un artista contemporaneo, confrontarsi con un simile ambiente è quantomeno azzardato. Nel 2019 Lionel Sabatté (nato a Toulouse nel 1975) raccoglie la sfida trascorrendo tre settimane in situ, nell’ampia volta della grotta, circondato da stalagmiti alte fino a 12 metri. Qui realizza due cicli di sculture: oltre a La bête de Bédeilhac, che riprende le rappresentazioni arcaiche di animali, dall’orso allo stambecco, si stagliano sei figure antropomorfe, filiformi e scarnificate ma con una presenza decisa grazie ai loro tre metri di altezza. A seconda del punto di vista assumono un’aria minacciosa o indifesa, sempre misteriosa; provengono dall’oscurità della grotta ma, prive di piedi, restano sulla soglia, ancora avviluppate all’ambiente circostante. Il titolo, Les larmes de l’éléphant, s’ispira del resto alla forma di una roccia della cavità.

Queste figure animali e umane sono composte, oltre che di rottami e fibre vegetali, di cemento, perseguendo la volontà di Sabatté di «riportare questo materiale, che è una roccia disidratata, alla sua origine naturale, quella di roccia. E il desiderio di portare il cemento alla carne. Ecco perché è tinto di rosso». L’artista tratta indistintamente materiali organici, minerali e animali, e realizza persino sculture con polvere o pelle morta. Può sorprendere ma a influenzarlo è La Raie (1728) di Chardin, col cadavere sviscerato ma sfavillante della razza al centro del dipinto, assieme carcassa e crisalide grazie al trattamento della materia pittorica. «Mi piace la definizione biologica del vivente come qualcosa che può riprodursi e distruggersi»: questa duplicità vale anche per Les larmes de l’éléphant, in quanto è difficile dire se vanno in rovina, se sono vestigia del passato o se, al contrario, sono umanoidi che annunciano una civiltà futura. Affascinato dall’uomo di Neanderthal e dal suo rapporto con l’Homo sapiens, Sabatté interroga la nostra umanità.

Che le sue sculture trovino il loro posto nella grotta di Bédeilhac? Sì, se non la pensiamo come un santuario primordiale ma come un luogo in cui tempo geologico e tempo umano entrano in collisione. La cavità di Bédeilhac, che accoglie i visitatori e si fa piattaforma espositiva occasionale, ha infatti un’origine inaspettata, frutto dei lavori invasivi durante la Seconda guerra mondiale per farne un sito industriale dove stoccare munizioni e strumenti militari al riparo da eventuali attacchi aerei. E negli anni settanta da qui decollò persino un aereo. Siamo insomma in una grotta-bunker, un abisso dove un mondo che precede la storia ha sfiorato la fine del tempo.

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