L’investigatore solitario sfida il Potere
In sala 'Cha Cha Cha' di Marco Risi, con Luca Argentero. Se il noir finisce nell'attualità
In sala 'Cha Cha Cha' di Marco Risi, con Luca Argentero. Se il noir finisce nell'attualità
Della danza cubana da cui prende il titolo nel film di Marco Risi c’è poco; un raccordo finale di una gara per coppie, metafora forse di vita, officiata dal maestro di cerimonie Nino Frassica, in cui si riemerge dal buio fitto dei misteri. Fino lì abbiamo viaggiato in una metropoli notturna, il lato oscuro della GrandeBellezza se vogliamo stare ai giochini di società-network, che l’occhio mobile di un grande direttore della fotografia come era Marco Onorato (a cui infatti il film è dedicato) trasforma in chiaroscuri, saette di luci e ombre che si inseguono tra i segni di un paesaggio romano quasi irriconoscibile.
Prima ancora però il film ci pone una questione, che le molte e infinite discussioni sul cinema italiano, i suoi esiti e le sue sorti, le eccezioni culturali e quant’altro, sembrano – chissà quanto volutamente – ignorare. La questione è quella della scrittura, chiamiamola «banalmente» sceneggiatura, che invece è sostanziale, e persino ingombrante in molto del nostro cinema che ne viene quasi sovrastato, come se lì ci fossero le garanzie fondanti ciascuna «immagine in movimento» (per definizione dunque qualcos’altro). E si presta così a diventarne l’illustrazione fedelissima, dimenticando le potenzialità delle immagini.
Risi, e gli altri autori della a sceneggiatura, Andrea Purgatori e Jim Carrington, hanno in mente il noir, e del genere riprendono i «punti fermi»: l’eroe sgualcito e solitario (ha pure un cane senza una gamba), investigatore privato alla Marlowe che si chiama però Corso, chissà se in ricordo di Corso Salani protagonista di Il muro di gomma, in un personaggio – il giornalista che combatte le trame del potere contro la verità sul Dc9 precipitato a Ustica – per certi aspetti molto simile a questo.
C’è poi il duello col poliziotto «cattivo» (Claudio Amendola), ex collega di Corso, che nauseato dalla corruzione di stato ha lasciato la polizia per mettersi in proprio. Ha imparato infatti che il confine tra criminalità e «ragione di stato», appunto, è molto labile se non insesistente.
E c’è la donna impossibile, amata in passato dall’eroe (Eva Herzigova), attricetta (!) ex-tossica che gli ha preferito l’avvocato potente, il grande burattinaio (Pippo Delbono, ed è incredibile come al cinema lo usano sempre in senso anti-fisico/emozionale, che è il suo talento). Da allora vive rinchiusa nella villa di lusso, forse con qualche rimpianto, e un figlio adolescente che la ama e detesta quell’uomo tra di loro … Finché il ragazzo viene travolto da un pirata della strada, ma ci sono molte cose che non tornano, a cominciare dal suo video postato su Facebook in cui promette al mondo «grandi cambiamenti». Cosa?
C’è anche un Intercettatore, uno che tiene sotto controllo tutto e tutti, e che riesce a smascherare anche i numeri coperti, un Grande Fratello (altroché le rivelazioni di Edwaed Snowden e il Datagate) che deve all’investigatore dei favori. Corso si mette contro tutti, polizia e criminali (non diversi come noir comanda), lei gli chiede di trovarle chi le ha ammazzato il figlio, e lui, naturalmente, l’ama ancora. Perché poi, in quegli stessi giorni, fuori città hanno trovato cadavere anche un ingegnere non proprio trasparente, e l’inchiesta chiusa a velocità fulminea ha decretato il suicidio. Chissà.
A questo punto l’intrigo è già diventato attualità, riferimento esplicito alla cronaca nostrana di corruzione politica, berlusconismo (l’ombra di Berlusconi balena nella figura dell’avvocato), mazzette di alto calibro, rapporti tra mafia e politica nelle sue cariche più alte, insabbiamenti e molto altro. Tutto vero, ovviamente, e il noir è una geometria potente di raccordo delle tensioni di un momento, di quei conflitti assoluti e universali e delle loro declinazioni violente in una zona franca dell’immaginario. Solo che al «noir« non basta la notte, cosa che invece qui è la scelta stilistica predominante, mentre l’ambiguità sfuggente e paradossale della realtà, risulta posticcia, come una specie di passaggio obbligato. Risi non ce la fa, e nemmeno ci prova a resistere alla sceneggiatura col cinema, gli attori, la visualità. Al contrario vi soggiace, organizzando le proprie immagini (ed è un peccato perché ci sono sequenze forti) come se fossero una sorta di accompagnamento.
Tutto è fin troppo chiaro, ogni elemento dichiara la sua importanza, l’ammiccamento a qualcosa di grande, lo svelamento di chissà che passaggio dopo passaggio, situazione dopo situazione, diversivi compresi.
E se invece si ritrovasse il gusto per la lotta libera tra gli script e la vitalità delle immagini che dovrebbero starci dentro? Il cinema italiano, purtroppo, spesso decide di non oltrepassare i confini, di non lasciare spazio al tempo e alla sorpresa, all’inquietudine che spiazza e ti accompagna anche a distanza. Si resta lì, con un mistero che è già svelato. Ma al cinema questo non basta.
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