Buon natale Casamicciola, ferma a un mese fa. Con il fango rimasto a coprire la parte alta del paese, pronto a traboccare nelle strade ogni volta che piove. Con mille persone senza casa e seicento edifici distrutti o non agibili, settecento studenti senza una scuola, decine di aziende fallite per la frana e la circolazione dell’isola spezzata in due. Buon natale con quei macigni enormi ancora in bilico lungo la faglia del monte Epomeo, là dove la montagna è venuta giù a valle tutta insieme. Con le case, quelle ancora in piedi, minacciate dall’alto, con i tronchi enormi dei castagni abbattuti e le carcasse delle automobili che fanno compagnia alle mura vuote, abbandonate.

Non erano ancora le cinque del mattino del 26 novembre quando il fango ha portato via dodici vite in dieci minuti: quattro bambini, uno di appena venti giorni, cinque donne e quattro uomini tutti nei loro trent’anni, una sola cinquantenne, una signora bulgara di nascita diventata italiana per cittadinanza due giorni prima di morire. Giù alla marina, mentre ancora non si sapeva della tragedia, il comandante del traghetto partito alle sei e venti dal porto di Casamicciola vedeva come un presagio, nelle prime luci attraverso la pioggia, bare vuote galleggiare sul pelo del mare grigio. La frana, venendo giù, aveva travolto anche il magazzino di un’agenzia di pompe funebri. E poi decine di automobili, trasportate a mare e colate a picco, due pullman conficcati come lapidi nella piccola spiaggia alla destra del porto. Un mese dopo sono ancora lì.

Morti in dieci minuti il tempo di sentire due rombi lunghi e potenti, il rumore del terreno che precipita in una notte senza più luce elettrica e con la pioggia così fitta che «tappava le finestre come una lastra di marmo». Morti affogati nel fango, ritrovati nei loro corpi intatti e nelle loro case. O morti trascinati più a valle, sfigurati dagli urti, sepolti in fondo a vasche di melma rimasta liquida a lungo. Morti subito, ritrovati anche undici giorni più tardi.

Passata una settimana, il primo piano per l’emergenza. Lo chiamano «piano speditivo» ma è solo un’ordinanza di evacuazione perché nel fine settimana minaccia pioggia. «Tra tre giorni tornerete». Gli alberghi per ospitare chi non ha amici o parenti da cui andare diventano tre, due a Casamicciola e uno a Forio. Organizzate un po’ come per una partenza improvvisa, più borse che valigie, famiglie intere, nonni e bambini invadono il letargo invernale dei saloni comuni di hotel. Si mettono in fila sotto gli ombrelli aggirando piscine vuote, tirano giù le sedie dai tavoli. Torniamo adesso a Ischia e li troviamo ancora lì. Hanno lo stesso sguardo che ti pesa addosso di chi cerca risposte. E non le trova nei turni di colazione-pranzo-cena appesi alle pareti, nell’ammuina finto festosa della vita troppo in comune, nei fiocchi rossi, luci e alberi di natale che nel frattempo sono spuntati intorno a loro. Una gioia che resta sulle pareti e non entra dentro.

Sono rimasti lì, altro che tre giorni. Il primo fine settimana dopo la catastrofe è passato, poi il secondo e il terzo. Anche per Natale, tutti fuori. La nuova mappa della protezione civile con quattro livelli di rischio è fatta, ma le regole per chi potrà come e dove rientrare arriveranno dopo santo Stefano. Intanto, sulla cartina che è servita per l’ordinanza di sgombero, il reticolo delle strade evacuate sembra quello di tre fiumi che scorrono giù in parallelo. È la prova di quanto sia grave il problema di Casamicciola. È la prova di quello che è successo davvero all’alba del 26 novembre.

«Le frane sono state tre», spiega il geologo Aniello Di Iorio che il 27 novembre fu il primo ad arrampicarsi lungo la grande faglia dell’Epomeo scivolata a valle e che da anni denuncia lo stato di abbandono dei canali. Nel racconto delle prime ore, nelle immagini che tutti abbiamo visto in centinaia di video, è stato automatico collegare la valanga che ha travolto le case alle pendici del monte al fiume di fango che è arrivato fino al mare trascinando pullman, automobili (e anche bare). Ma non c’era alcun collegamento. «La frana assassina», spiega Di Iorio spostando la tazzina del caffè e disegnando il profilo della montagna sul tovagliolo, «ha perso gran parte della sua forza riempendo il parcheggio del Rarone». A quel punto aveva già fatto tutte le sue vittime in via Celario. Molto fango è continuato a scendere tagliando i tornanti di via Santa Barbara e ha fatto danni enormi invadendo i campi e le proprietà di una zona che le mappe di rischio idrogeologico indicavano come sicura. È arrivato fino alla zona del Maio che è la stessa più colpita dal terremoto dell’agosto 2017. Lì lo scenario resta quello di un paese fantasma, dove quelle che erano case sono adesso il contenuto invisibile di un castello di tubi innocenti. Impalcature prese e pagate a noleggio, da cinque anni, che servono solo a tenere in piedi le ambizioni di rimborso dei proprietari. Qui le case o quel che ne resta sono solo titoli di credito per quando lo stato si deciderà a pagare. Chi le abitava prima del terremoto è stato convinto a trasferirsi poco più su, al sicuro. Sotto la frana.

La frana «assassina», come la chiama il geologo Di Iorio che riprende la sua spiegazione. Duecento metri più a valle e più a est di piazza Maio, altro fango ha riempito fino a traboccare piazza Bagni, il punto in cui da millenni si incrociano le acque calde che scendono dall’Epomeo seguendo le faglie. Tanto che i moderni alberghi termali poggiano sui ruderi cadenti di quelli secolari, quando alle famose terme del Gurgitello andava a curarsi la bella società, antichi stabilimenti sopravvissuti al terremoto del 1883 ma non all’inondazione del 1910. Cento e dodici anni fa, la frana fu identica a quella di quest’anno. Le foto dei massi grandi come carrozze accanto ai quali si fermò in visita Vittorio Emanuele III sono sovrapponibili a quelle che abbiamo scattato la mattina del 26 novembre. Le mura vuote degli alberghi, oggi, con i segni del fango a un metro da terra, sembrano specchiarsi nel loro destino avendo di fronte antichissime macerie.

«Qui il fango è arrivato da altre due frane cadute contemporaneamente a quella assassina negli alvei Ermaniello e Sinigallia», spiega Di Iorio. «Poco era stato fatto per tenerli in sicurezza e quel poco neanche bene. Sono traboccati facilmente, è da lì che è arrivata la colata che ha raggiunto il mare, così com’era arrivata nel novembre del 2019 quando trascinò e uccise Anna De Felice. Gli alvei erano ostruiti prima e lo sono adesso ancora di più. Sono tornato in escursione ho visto centinaia di tronchi abbattuti che riempiono il fondo», racconta il geologo. E aggiunge un particolare paradossale: «Persino i gabbioni di sassi che erano stati posizionati a contenimento delle pareti adesso si sono sfaldati e aperti, hanno aggiunto altro materiale che andrebbe rimosso urgentemente perché tappa completamente il corso delle acque piovane».

Tre frane, anzi quattro considerando quella che, nelle stesse ore di un mese fa, è caduta sul versante sud dell’isola, a Barano, dove una pensione costruita chissà come in bilico sulla scogliera vista mare è ora una mezza pensione abbattuta sulla spiaggia dei Maronti. O cinque frane, perché sempre a Casamicciola, non notato nel clamore delle prime ore, è venuto giù un pezzo del costone sotto il quale corre la strada litoranea, così bloccando per giorni al traffico l’unica via di collegamento tra i comuni dell’isola. Adesso c’è una deviazione di transenne per consentire un passaggio alternato, identica a quella che trecento metri più avanti è rimasta a ricordo di uno smottamento analogo di quattro anni fa.

Lungomare di Casamicciola, hotel Stella Maris e ristorante pizzeria Monfalcone, una delle ultime sere. Il commissario straordinario alla ricostruzione post terremoto del 2017 e commissario delegato dal governo per l’emergenza post frana, Giovanni Legnini, incontra i cittadini nel frattempo riuniti in comitati. In tanti e diversi comitati. Gli ambienti, pensati per i turisti, sono grandi e spogli, fa freddo e si sta seduti tenendo il cappotto. Arrivano anche la commissaria di governo che da sei mesi amministra il comune di Casamicciola, la vice prefetta Simonetta Calcaterra, e i sindaci di Forio e Lacco Ameno. Ma le domande sono tutte per Legnini. «Perché tantissime case sono ancora senza acqua e corrente elettrica? Quanto ci vorrà per completare le verifiche statiche degli alloggi? Quali sono i criteri con i quali deciderete chi far rientrare e chi no? Quando porterete via il fango dalle strade, dove lo porterete, si può sapere quanto costerà tutta l’operazione?». Legnini cerca di spiegare che malgrado sia il super commissario non tutto dipende da lui. Servono i soldi e le leggi. Alla camera dei deputati il decreto Ischia è pieno di proroghe ma vuoto di risorse. In più la destra prova a stiracchiarlo per altre esigenze, vuole metterci dentro Lipari e l’Elba. Anna Di Scala, del comitato CASAmicciola, è preoccupata che ci sia troppo zelo dietro la decisione sgomberare tutti, anche l’istituto tecnico dove insegna. Per Antonietta Iacono, del Comitato civici Ischia, Legnini e Calcaterra «hanno sulle loro spalle il peso di decisioni epocali che condizioneranno il nostro futuro e quello dell’isola». «La frana è peggio del terremoto», si lascia scappare Legnini, che deve gestire entrambi i guai. Promette i contributi per chi vorrà lasciare le zone pericolose e trasferirsi altrove e pure i contributi per le autonome sistemazioni, in affitto. Ma a Ischia, alza la voce una signora dall’ultima fila, «sappiamo tutti che case da affittare non ci stanno, che i proprietari le tengono ferme per i turisti l’estate».

Il clima tra le autorità e i cittadini si è guastato rapidamente. Chi ha perso la casa cinque anni fa per il terremoto e non ha avuto nulla non riesce a fidarsi. Lo sgombero «speditivo» di tre giorni che è diventato di un mese conferma le paure. Quando fa buio, nella zona rossa che è grande metà paese circolano solo auto delle forze dell’ordine. Ogni tanto però spunta una luce accesa dietro le tende. Poche case di sentinelle ribelli che non obbediscono all’ordine di sgombero. Eppure le ragioni della rabbia non riescono a diventare ragioni di un impegno civico condiviso. La moltiplicazione dei comitati ha più a che vedere con le prossime elezioni amministrative di giugno che con la reale diversità dei bisogni. Da Casamicciola molti giovani sono andati via dopo il terremoto e molti di più hanno ormai i loro interessi e le loro prospettive lontani. Per gli adulti e gli anziani è più difficile passare dalla tutela dell’interesse immediato e privato alla cura degli interessi collettivi, sfuggire alla trappola dell’economia dell’emergenza che sta trasformando Casamicciola in un paese sussidiato e morente. L’altra notte, la prima notte dell’inverno, un gruppo di ragazze e ragazzi ha lasciato sedici candele accese accanto alle case abbandonate. Sedici, non solo per le dodici vittime della frana ma anche per il padre di una di loro, morto qualche giorno dopo dal dolore, per la ragazza di quindici anni travolta dalla frana del 2009 e per le due donne uccise dal terremoto del 2017. Un unico destino tragico che si allunga su una piccola comunità.

Per la precedente frana c’è stato un processo, chiuso in appello venti giorni fa dalla prescrizione. Oggi sulle morti del 26 novembre indaga la procura di Napoli che ha chiesto una perizia complessa sulle cause della frana e sulla mancata prevenzione. Tanto complessa che i risultati sono attesi per maggio. Non è detto che le informazioni di garanzia debbano aspettare tanto. Anche perché alcune responsabilità sembrano evidenti. A Casamicciola non c’era un piano di protezione civile, unico comune della provincia in queste condizioni. Avrebbero dovuto farlo almeno tre sindaci negli ultimi quindici anni, la commissaria che somma i poteri del primo cittadino a quelli del Consiglio comunale è riuscita solo ad avviare la pratica. Stavolta i magistrati indagano anche per frana colposa, un reato grave che prevede una pena massima di 12 anni e di conseguenza una prescrizione lunga. Se la procura ha voluto consulenti esterni alla regione, due professori di Bologna, è perché molto probabilmente dovrà mettere a fuoco anche le responsabilità della Regione Campania. Che avrebbe dovuto fare i lavori di manutenzione degli alvei con fondi nazionali stanziati sia nel 2010 che nel 2012, ma dopo anni di inerzia ha girato la responsabilità al comune. Che non ha avuto i mezzi e le capacità per fare quasi nulla.

Non ha i mezzi, attraverso la sua società in house di nettezza urbana, neanche per occuparsi dello smaltimento del fango. Una prima ordinanza del commissario Legnini gliel’aveva affidata in carica. Ma dopo un mese il fango a monte è appena scalfito e quello a valle, tolto dalle strade, resta accumulato sui marciapiedi, davanti ai portoni. Sono 80mila i metri cubi di terra, sassi e alberi da buttare, una massa in grado di riempire 2.500 container. Ma buttare dove? Nelle prime ore molto è stato spinto a mare, lungo la scia che il fiume di lava si era creato da sé. Poi questo lavoro è stato interrotto e il fango è stato raccolto all’interno di una proprietà derelitta del Pio Monte della Misericordia. Da dove, però, da qualche giorno viene portato via dai camion. Nel 2021 i privati titolari dell’ente benefico avevano ottenuto il via libera dal comune per trasformare quel che resta di una magnifica struttura del Seicento in un hotel di lusso. Ma dopo un anno stavano perdendo il titolo, non avendo ancora mosso pietra. Dieci giorni prima della frana hanno ottenuto una proroga. E così adesso rivendicano la pulizia di un luogo praticamente abbandonato da cinquant’anni. Il risultato è che i camion e i traghetti stanno facendo una costosissima spola per spostare sulla terra ferma il fango accumulato in quel deposito, dove non arreca danni. Mentre il fango davanti e sopra alle case a monte non si tocca, perché non si sa dove metterlo. Una nuova ordinanza di Legnini stabilisce che la priorità è il riutilizzo dei materiali naturali per il ripascimento delle spiagge e il consolidamento delle coste. I biologi marini hanno sollevato obiezioni perché scorrendo a valle il fango può essersi contaminato. Ma purtroppo è un dettaglio visto che nell’intera isola non c’è un solo depuratore in funzione (c’è un commissario anche per questo). Intanto la parte maggiore dei sei milioni che sono stati fin qui stanziati per Casamicciola se ne va, come da tradizione, nel movimento terra. Materiale utile sull’isola parte via mare verso una cava di Quarto. Verso una discarica che ha una storia di sversamenti illegali.