L’invenzione figurativa delle Americhe
Mostra Al Getty Center di Los Angeles, una esplorazione delle mitologie che hanno accompagnato la conquista dei due continenti americani
Mostra Al Getty Center di Los Angeles, una esplorazione delle mitologie che hanno accompagnato la conquista dei due continenti americani
Rieccoci qui, con i soliti europei conquistadores, un po’ arroganti e sempre a caccia di successi e territori da conquistare. Una mostra al Getty Center di Los Angeles, esplora radicalmente la comparsa di mitologie che hanno accompagnato la conquista dei due continenti americani.
Si è spesso sostenuto che l’America fosse un’invenzione europea. Da quel quasi mitologico 1492, fino quasi alla fine dell’Ottocento, chiunque riuscisse ad arrivare al di là dell’oceano – conquistatores, viaggiatori, artisti – aveva sempre creato immagini per testimoniare e raccontare il nuovo mondo e in qualche modo la propria narrazione dei fatti. Erano state così narrate spesso idee fantastiche, in libri, stampe, «leggende», e anche in oggetti che si rifacevano alle grandi risorse naturali dei nativi, che vivevano da sempre quelle terre appena incontrate.
Mischiando la concreta realtà del nuovo mondo, scoperto già da subito molto ricco, con le proprie tradizioni, convenzioni e interpretazioni, i nuovi arrivati avevano creato immagini portatili, che potevano essere poi copiate di continuo, in modo da poter circolare per tutto il mondo, per diffondere gli stessi stereotipi e pregiudizi.
La mostra (Re)Inventing the Americas: Repeat. Erase, Construct, aperta il 23 agosto al Getty Museum (fino all’8 gennaio del prossimo anno), cerca di analizzare proprio la creazione delle mitologie che erano nate durante la conquista e l’esplorazione dei due nuovi continenti, rivelando l’influenza che quei miti e quelle visioni, al limite dell’utopico, avevano avuto nel definire le Americhe.
La mostra ricontestualizza e incornicia di nuovo la colonizzazione e il materiale raccolto fino al XIX secolo, grazie al lavoro condotto dalla collezione del Getty Research Institute. Il quesito, la ricerca, restano la rappresentazione Europea dei due continenti americani. Come dice Mary Miller (direttrice del Getty Research Institute), «questa mostra propone l’idea che le Americhe siano state reinventate utilizzando le convenzioni e l’immaginazione europee».
La mostra è divisa in cinque diverse sezioni tematiche. La prima esamina le costruzioni allegoriche dell’America, considerando soprattutto la sorgente e l‘evoluzione di tutte queste immagini raccolte. Quindi, una seconda parte esplora la ricchezza naturale dei due continenti, sottolineando anche, e forse soprattutto, lo sfruttamento di tutte le risorse naturali. In una terza sezione viene descritta la costruzione degli archetipi del mondo nuovo e inesplorato, analizzando oggetti comuni. È il caso delle tante rappresentazioni della gente locale, degli indigeni raffigurati con piume, e anche del racconto dell’idolatria e del fenomeno del cannibalismo. La quarta sezione è interamente dedicata a immagini della conquista, in cui sono enfatizzati soprattutto i toni politici di certe narrazioni di quell’epoca storica e artistica, che inventava una nuova tradizione americana con radici Europee e, necessariamente, anche indigene.
E forse anche non solo di quel momento, visto che una parte magico-misteriosa resiste tuttora. La parte finale, e qui siamo davvero chiamati tutti in causa, osserva il lavoro dei viaggiatori europei, sottolineando differenze e punti in comune tra le due epoche, tra quella indigena e quella coloniale.
L’intera mostra descrive la collaborazione del museo con l’artista contemporaneo brasiliano Denilson Baniwa, proveniente dalla regione amazzonica, a nord del paese. L’artista ha creato diversi interventi artistici raccolti in tutte le stanze dell’esposizione. Presentandosi su un sito a lui dedicato, dice di essersi appropriato del linguaggio occidentale per decolonizzare i temi affrontati nel suo lavoro. Rompere i paradigmi e aprire nuovi sentieri per le popolazioni indigene rappresentano la vera e forse unica chiave per accedere a questi loro – e anche nostri – territori.
Proprio il suo lavoro si rivolge al visitatore invitandolo a ri-valutare criticamente tutto il materiale che arriva dal passato, in modo che possa aiutare tutti ad avventurarsi lungo l’intero e traumatico percorso del colonialismo. Proprio il trentacinquenne artista, indigeno di Rio Negro in Amazzonia (nell’area divisa tra Brasile, Venezuela e Colombia), ha approfondito la sua ricerca grazie anche al graphic design, al disegno, e alle sue tante performance di interventi urbani.
Tra i suoi molti lavori, anche quello di cercare punti di intersezione tra la cultura indigena e il mondo dell’arte contemporanea. Attraverso la propria arte chiede, o forse meglio interroga, il suo e il nostro passato coloniale, e anche le vecchie rappresentazioni troppo speso stereotipate degli indigeni.
L’arte che accompagna ancora oggi quel salto nel vuoto, da tutti celebrato come il segno della conquista di nuove terre, si interroga ancora, oggi spesso senza risposte chiare, anche del tema delle relazioni che gli indigeni instaurano con la tecnologia e, soprattutto, con gli effetti pericolosi dell’agro-business soprattutto per la popolazione indigena. Un’indagine dovuta, forse anche solo per non dimenticare una storia di cui ancora dobbiamo ritenerci responsabili.
Una mostra che, chissà, sembra quasi chiedere una specie di assoluzione e riconoscimento per errori commessi in passato e che, in parte, continuano ad esistere.
Questa arte è il percorso che permette di generare nuove interpretazioni e reinvenzioni delle Americhe. I commenti agli oggetti fatti da membri della comunità indigena di Los Angeles presenti alla mostra, permettono di avere una percezione multi prospettica dei lavori esposti.
Idurre Alonso, anch’egli curatore al museo, ricorda che «le nostre collezioni illustrano la costruzione di un’immagine delle Americhe basata sulla prospettiva europea. (…) Così è stato importante analizzare e contare la visione europea introducendo una presentazione multistrato degli oggetti in mostra. Per fare questo, ho collaborato con Denilson Baniwa e con la nostra comunità latino americana e Latinix locale. La loro voce è diventata parte della narrativa dell’esposizione, credo sfidando la persistenza di certe nozioni. Il risultato di queste collaborazioni è una mostra con molte facce, che spiegano la complessa reinvenzione delle Americhe dall’epoca coloniale fino ai giorni nostri».
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