L’invenzione della città
Mostre «African Metropolis»: una collettiva al Maxxi per indagare gli spazi urbani e i labirinti di storie che vi si sedimentano, a cura di Simon Njami e Elena Motisi
Mostre «African Metropolis»: una collettiva al Maxxi per indagare gli spazi urbani e i labirinti di storie che vi si sedimentano, a cura di Simon Njami e Elena Motisi
Un tempo c’era Babele, oggi qualsiasi città può dirsi luogo di transizione e mutazione permanente. «Architetture» che si snodano conservando una identità sospesa, in particolare, lo sono quelle africane, in grado di stratificare storie e memorie come fossero scaffali di tessuti da toccare, annusare, ascoltare. Sono conoscibili le metropoli d’Africa? Dipende dall’attitudine del presunto «indagatore»: bisogna innanzitutto attrezzare la mente sul piano della simultaneità e anche della sinestesia, creando un vero melting pot dei sensi. È con questo atteggiamento, senza visioni idealistiche né immaginario post-coloniale che si può penetrare nei meandri della mostra African Metropolis, al Maxxi di Roma, collegando sprazzi urbani a suoni, trame di romanzi e pensieri aggrovigliati.
Curata da Simon Njami, insieme a Elena Motisi, la rassegna – visitabile fino al prosimo 4 novembre – prova a «infilare le perline» di una geografia scomposta (e molto depredata) attraverso gli occhi e la voce di trentaquattro artisti. E, come afferma Njami nel suo testo in catalogo (edito da Corraini), l’intento è quello di indurre allo smarrimento per azzerare i pregiudizi: «Facendo sì che il visitatore si perda in un modo che è incapace di rivendicare completamente, intendiamo costringerlo a pensare a se stesso in modo diverso e a pensare all’alterità in termini nuovi», scrive. Così, la mostra si presenta come una selva di incroci e bivii, da affrontare liberamente, anarchicamente, nella direzione che si preferisce seguire in quel preciso momento. L’idea è quella del labirinto, privato però di presenze-guida al suo interno.
Se la città abbatte le sue mura, diventando esclusivamente un agglomerato di elementi antropici e urbani, la comunità prende il sopravvento e assume il ruolo centrale della scena. Si trasforma in una protagonista assoluta: la cosa migliore da fare, allora, è avviarsi lungo strade secondarie, evitando gli ingorghi. La Symphonie urbaine di Lucas Gabriel è un’invenzione sonora che ben restituisce quello spartito nomadico che è l’ossatura e l’anima vivente su cui poggiano città quali Dakar o Yaoundé, in Camerun. «I quartieri – leggiamo – spuntano come funghi, fioriscono, poi appassiscono, e trasportati dal venti si lasciano sparpagliare come stame».
Le sezioni dell’esposizione «vagano» come le opere, intrecciando la pratica dell’immaginazione utopica (Ouattara Watts) a quella del riconoscimento di una comunità – la serie fotografica di City in Transition del sudafricano Andrew Tshabangu, che si sofferma su quegli spazi totalmente ricreati durante l’apartheid dai suoi abitanti per spezzare il confinamento politico.
In Prends le bus et regarde (2006), primo corto girato dall’artista algerina Amina Zoubir subito dopo la guerra civile nel suo paese, si opera una sorta di ciné-verité filmando gli spostamenti degli abitanti di Algeri e soprattutto il loro linguaggio corporeo, che denota un arroccamento e una chiusura in se stessi.
Data l’impalpabilità e la liquidità delle cartografie africane, è proprio la musica a essere il miglior filo conduttore in molte installazioni provocando con i suoi ritmi quel dislocamento sonoro che rende indisciplinato un territorio e, più che mai, il suo attraversamento. Ad abbattere l’ambiguità dei «riconoscimenti» ci pensa però Abdulrazaq Awofeso (Nigeria) con la sua raccolta di feticci africani (iniziata nel 2015) e il suo «presepe» diffuso – 120 statuine – che ricalca le fattezze di una collettività in bilico tra la terra e il cielo (le divinità cui si riferiscono i totem e le maschere sacre).
Ma forse la vera summa di African Metropolis, l’opera cardine che più narra di quella impossibilità di contenere lo spazio comportamentale e architettonico delle città è Falling House (2014). Baracche di legno ricoperte di foto, attaccate al soffitto sfidano la forza di gravità a testa in giù: il camerunense Pascale Marthine Tayou mette in scena la globalizzazione nel suo cocktail di tradizioni che si mischiano sulle pareti di quelle povere casupole, rese «ricche» dal brusìo della vita che le circonda e le coinvolge.
Il rimando è alla fragilità del mondo raccontato nel romanzo Il crollo di Chinua Achebe: scritto nel 1958 dal letterato nigeriano, diventato un classico e un libro di testo in molte scuole d’Africa, testimonia la vivacità di un paese pre-coloniale, incastonando fra le sue pagine la provvisorietà della Storia e della vita stessa.
Infine, la speculazione come flagello inoculato dal capitalismo. A riflettere intorno al suo dominio è Meschac Gba con il suo Bureau d’échange. Al posto delle risorse naturali di una terra fertile, si trovano – ordinati in un archivio impossibile – i soldi, oggetto asettico che «disossa» culture e tradizioni con la sua potenza chimerica.
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