A partire dagli anni Novanta la questione della sicurezza è assurta alla ribalta dell’opinione pubblica. La distinzione tra classi laboriose, dedite ai commerci, alla manifattura e paladine dell’ordine pubblico come tutela dell’ordine sociale esistente, e classi pericolose, ovvero oziosi, vagabondi, sovversivi e degenerati, si è affermata prepotentemente nella società italiana. Enzo Ciconte, nel suo ultimo lavoro, Classi pericolose (Laterza, pp. 300, euro 20), mette in luce come questa cesura non soltanto va messa in relazione con le disuguaglianze sociali, ma si produce storicamente.

SPAZIANDO DAGLI ALBORI del capitalismo ai giorni nostri, Ciconte ricostruisce l’impianto politico-culturale che sottende alla produzione delle classi pericolose in Italia, articolandolo su tre piani: quello della carità, ovvero dell’approccio pietistico alla questione sociale; quello della repressione, con le leggi e gli apparati statuali utilizzate per reprimere e rimuovere le disparità di risorse; e quello delle rappresentazioni, relativo alla costruzione di rappresentazioni negative delle classi definite come pericolose, ovvero i gruppi sociali subalterni.

L’affermarsi del capitalismo distrugge le forme di socialità e reciprocità preesistenti, spingendo alla fame milioni di persone. Le città si ingrossano di nuovi abitanti, non sempre assorbiti dal mercato del lavoro, che si dibattono tra svariati espedienti per sopravvivere. A loro si sommano i proietti, ovvero i figli nati da legami extraconiugali, e le donne i cui comportamenti eccedono la morale e il diritto che le vedono subalterne agli uomini. Migranti, rom e saltimbanchi, con l’incertezza del loro status residenziale, chiudono il cerchio. Prende forma una miscela esplosiva, che alimenta le paure di una classe emergente non in grado di gestire le trasformazioni sociali che ha innescato.

PIUTTOSTO che promuovere politiche di integrazione sociale a largo raggio, le classi dominanti intervengono attraverso la creazione di istituzioni caritatevoli, che dapprima servono ad alleviare i loro scrupoli, in seguito produrranno quella manodopera necessaria a lavorare nelle fabbriche, riproducendo e consolidando la nuova stratificazione sociale delle società capitaliste. Con la carità si tenta altresì di contenere i pericoli igienico-sanitari prodotti dal sovraffollamento urbano. A questo si deve la nascita di brefotrofi, orfanotrofi, alberghi dei poveri, dove l’assistenza si sovrappone al controllo preventivo.

La carità si rivela presto una coperta corta, come mostra la nascita delle organizzazioni politico-sindacali di operai e contadini. Le classi dirigenti rispondono trasponendo la questione sociale sul piano penale. Dalla legge Pica del 1863 ai moti di Milano del 1898, per arrivare agli anni Cinquanta e Sessanta, la repressione a mezzo delle forze dell’ordine e dell’esercito, affiancata dalla legislazione repressiva e dal carcere, vengono utilizzate diffusamente per esorcizzare le paure della borghesia italiana.

A LIVELLO IDEOLOGICO, i ceti subalterni, vengono dipinti con le tinte del positivismo, dove la pericolosità si sovrappone all’immoralità e alle tare genetiche. A farne le spese sono soprattutto i contadini meridionali, che, dalla repressione del brigantaggio in poi, forniranno spunto alle speculazioni forzate di Cesare Lombroso. L’emigrazione di massa dal Sud e dalle Isole, dapprima verso le Americhe, in seguito verso il Nord industrializzato, dovrà fare i conti con la stigmatizzazione e la discriminazione di impianto lombrosiano.

LA RAPPRESENTAZIONE delle classi subalterne come classi pericolose, ha il vantaggio, per i gruppi sociali dominanti, di occultare quelli che la criminologia critica definisce come crimini dei potenti. In particolare, la classe dirigente italiana, si distingue per il suo sovversivismo, che spazia dal fare ricorso ai mafiosi per regolare la gestione dei latifondi alla messa in atto della Strategia della tensione negli anni Settanta, passando per l’utilizzo delle squadracce e della dittatura fascista e dei reparti-confino della Fiat. L’altro crimine dei potenti, nota Ciconte, è la corruzione. Ci vorrebbe un altro libro, dice l’autore. Varrebbe la pena che lo scrivesse.