Visioni

L’intimità del tempo tra i rami di un frutteto

L’intimità del tempo  tra i rami di un fruttetoUna scena da Il frutto della tarda estate

Al cinema «Il frutto della tarda estate» di Erige Sehiri, un giorno di lavoro dei raccoglitori di fichi, la Tunisia oggi, le lacrime e gli amori, la giovinezza e la vecchiaia, il desiderio

Pubblicato più di un anno faEdizione del 23 marzo 2023

Dall’alba al tramonto – in una luce colta nel suo stadio di tenuità -, e alla fine dell’estate, la tipica malinconia che ti prende in quel periodo dell’anno: l’afa già attutita da una qualche folata; il futuro incerto, traguardato in quel che resta del giorno; il residuo stillicidio degli amori. È lo scenario in cui si consuma la giornata lavorativa, alla fine della settimana – un altro crepuscolo, un’altra levità, intima fragilità del tempo – dei personaggi nel film di Erige Sehiri, Il frutto della tarda estate in sala con la distribuzione di Trent Film, sensibile rispetto al cinema nordafricano, se è vero che il prossimo mese farà uscire Mediterranean Fever della regista palestinese Maha Haj.

UN’UNICA giornata in un frutteto del nord-ovest della Tunisia che diviene microcosmo onnicomprensivo, sineddoche della società tunisina (ma, probabilmente, della società tutta), in cui si consumano i rapporti di forza tra uomo e donna; tra proprietario e lavoratore; perfino all’interno della famiglia (con uno zio usurpatore di terre, il frutteto appunto); gli equilibri tra le diverse generazioni: attriti e improvvise adiacenze tra corpi, psicologie, inquietudini. Sono i meccanismi esistenziali colti quasi allo stato brado; quelli di una vita proletaria, schietta, terragna, che è tale, non può che esserlo, solo nel rapporto tra gli esseri. È sulla terra, nella terra, tra i grumi del terreno che si sfarina sotto le scarpe di un’umanità semplice, ora timida ora riottosa, convulsa; nel folto dei fichi, nell’intrico delle piante pendule, che si ramificano questi rapporti, mostrando un’esemplarità quasi panica, tutt’uno con gli elementi, con le arborescenze. Qualcosa come una poesia del frutto e delle foglie, del fico, con gradazioni di maturazione visibili sulla corteccia, levigata o rugosa: i giovani già maturi – pieni della polpa del desiderio -, quelli ancora acerbi, ricolmi di dubbi, impacci, e i frutti giacenti ammaccati, squassati sul terreno – esalanti malinconia, rimpianto -, i vecchi alle prese con qualche necessitata, forse puramente larvata meschinità, ma ancora capaci di cantare.

Lo sguardo di Sehiri si muove, pensile, fremente (come in balia di qualche brezza), tra gli alberi e le casse affastellate di fichi; bagna i volti dei personaggi, li accarezza – o li ammonisce, come nel caso del datore di lavoro, subdolo, profittatore: ma le donne ora sanno difendersi o forse la prepotenza degli uomini si è attenuata, è come neutralizzata dal vento della primavera araba – attraverso la luce e la fibra delle foglie che spesso si frappongono tra l’occhio e i primi piani, quasi a creare un ostacolo ai fini della penetrazione delle psicologie, che in effetti restano sondate fino a un certo punto, giusto un millimetro al di là della corteccia, lasciando intatta la polpa se non nel caso dei frutti più maturi, quelli caduti sul terreno, una delle lavoratrici più anziane, il cui succo, lacrime per un amore perduto, a un tratto è squadernato sulla superficie di questo organismo a infiorescenza che è il film. Sono i rapporti tra le persone che interessano la regista – la sua prospettiva, in cui si scorgono riverberi del cinema di Kiarostami, è evidentemente politica, ad altezza d’uomo: lì c’erano gli ulivi, i campi brulli, arsi; qui i fichi, lo stesso tipo di terreno, la stessa inerzia tra i metabolismi; i legami o gli iati che si attivano in questa comunità, piuttosto che le psicologie, appena abbozzate. Così come lo è lo scenario vegetativo, ancora estivo che avrebbe potuto suscitare sequenze più contemplative e invece si riduce all’essenziale, all’essenzialità (politica) di un campo fitto di alberi, in cui si aggirano persone alle prese con le increspature della loro vita, ripresi sempre in campo ravvicinato, evitando il senso di distanza operato dal campo lungo.

IN QUESTO contesto frontale, in primo piano, si dispiega la vicenda vitale e libera (anche contraddittoria, in misura del tramestio, brulicame inconsulto dell’esistenza) riguardante i raccoglitori di frutta: c’è, in tutti i personaggi di questo film, come un’allegria decameroniana – e l’antifona del sotterfugio innocente, atavico nei loro gesti ai danni del padrone – come nel caso di uno dei personaggi più affascinanti e sfuggenti del film, Ghaith, ragazzo timido e maldestro, che nonostante sia stato cacciato dal padrone per aver spezzato dei rami di fico, resta lì nell’eremo del frutteto, a sguazzare in un ruscello e nel flusso di fronde, sorridente o attonito, avvilito e spensierato, refrattario al senso recondito e dolorose delle cose, come un personaggio pasoliniano che sta tutto nella frontalità innocente, incantata del suo volto.

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