L’intimità dei soldi
Interviste Un incontro con lo scrittore argentino Alan Pauls, in Italia per presentare l'ultimo capitolo della sua trilogia, «Storia del denaro», pubblicata da Sur. «E' incredibile come il mio paese venga rappresentato solo nei suoi sette anni di terrore della dittatura. Scrivo sul decennio dei Settanta perché voglio ricongiungere la prima metà, quella utopica, alla seconda, caratterizzata dalla repressione»
Interviste Un incontro con lo scrittore argentino Alan Pauls, in Italia per presentare l'ultimo capitolo della sua trilogia, «Storia del denaro», pubblicata da Sur. «E' incredibile come il mio paese venga rappresentato solo nei suoi sette anni di terrore della dittatura. Scrivo sul decennio dei Settanta perché voglio ricongiungere la prima metà, quella utopica, alla seconda, caratterizzata dalla repressione»
Una trilogia per raccontare, quarant’anni dopo, un decennio. Tre romanzi per interrogare, da una prospettiva eminentemente letteraria, gli anni Settanta del suo paese. Così l’argentino Alan Pauls, nato a Buenos Aires nel 1959, ha deciso di rivelare, come già il coetaneo e connazionale Martín Caparrós, la propria visione rispetto uno dei periodi più cruciali della storia contemporanea: muovendo da una prospettiva allo stesso tempo centrale e tangente a quegli anni e sottoponendo alla prova di resistenza della scrittura concetti come pubblico e privato, che la cultura di quell’epoca ha coniugato in forme impreviste e inedite.
Letta in sequenza, la «trilogia della perdita» (come è stato ribattezzato il progetto di Pauls) si situa in una dimensione ibrida, a metà fra la narrazione pura e il documentario, infarcita di elementi eterogenei e impreziosita da uno stile vorticoso e articolato in grado di andare avanti e indietro nel tempo, senza soluzione di continuità, per fissarne gli elementi salienti e più controversi. In Italia per presentarne l’ultima stazione, Storia del denaro – èdita, come anche Storia dei capelli, dalla romana Sur nella versione di Maria Nicola (Storia del pianto era invece apparsa per i tipi di Fazi) – Alan Pauls tenta un bilancio proprio a partire dalla fine: «Non so perché ho concluso con il denaro, ma sin dall’inizio l’ordine stabilito era questo: il pianto, i capelli e il denaro. Nelle mie intenzioni, volevo procedere dalla sfera più personale a quella più sociale, ma solo dopo aver terminato la trilogia mi sono reso conto che quello che pensavo fosse personale era in realtà più sociale di quanto non ritenessi e viceversa».
Rispetto al pianto e i capelli, il denaro come caratterizza la storia dei personaggi di questo suo ultimo romanzo?
Essendo una fonte di dubbio, il denaro produce giocoforza una finzione. È un elemento che obbliga a interrogarsi e, per questo, ad approfondire, dunque a inventare. Credo che ancora oggi il concetto di denaro sia un motore molto importante delle dinamiche famigliari, anche dal punto di vista psicologico. Rappresenta un enigma che qualifica le forze all’interno di un contesto ben preciso, come quello domestico: chi porta denaro in casa, chi lo elargisce agli altri familiari, chi lo spende, quanto ne occorre o chi lo conserva.
Io stesso, da piccolo, mi ponevo di frequente la domanda da dove venissero i soldi della nostra famiglia. I miei genitori erano separati e mia madre si lamentava molto perché mio padre non contribuiva adeguatamente ai nostri bisogni materiali. Partendo da questa esperienza personale ho scoperto, col tempo, che i bambini si fanno molte più domande sul denaro di quanto gli adulti non immaginino. Molte più, credo, che sugli affetti, sul sesso, sul carattere delle persone che vivono con loro.
Da questo punto di vista, il denaro sembra svolgere, anche metaforicamente, un ruolo diverso rispetto agli altri due «protagonisti» della trilogia.
In effetti, con il pianto e i capelli mi interessava rappresentare l’elemento in quanto tale, l’atto di piangere o di portare questa o quell’altra acconciatura per produrre effetti sugli altri, e cioè piangere per chiedere, per manifestare, per condividere un determinato stato d’animo; i capelli, invece, sono un dato solo all’apparenza frivolo. In realtà, sono carichi di connotati, anche e soprattutto politici.
Da cosa nasce il suo bisogno di raccontare una determinata epoca storica?
Ho sempre voluto scrivere degli anni Settanta. Innanzitutto, poiché avevo undici anni nel 1970 e ventuno nel 1980, è in quel periodo che mi sono formato intellettualmente, artisticamente, sessualmente e socialmente. In secondo luogo, perché è stato l’ultimo decennio epico della storia contemporanea argentina. Un decennio nettamente diviso in due metà: la prima, utopica, convulsa e radicalizzata; la seconda, caratterizzata dal terrore e dalla repressione che seguirono il colpo di stato del generale Videla, nel 1976. Per quanto riguarda la letteratura, si è scritto molto riguardo quest’ultima, mentre quasi nulla sulla prima. A me, più che raccontare in senso proprio quel decennio, interessava soprattutto ricongiungere quelle due realtà e replicare il modo in cui si forma una sensibilità non solo letteraria.
Quale può essere, oggi, il valore di una narrazione del genere?
Dal punto di vista del discorso politico, in Argentina si assiste a un revival molto esplicito di quell’epoca: si parla come negli anni Settanta, si ricordano gli anni Settanta, si citano gli anni Settanta, di modo che – nella finzione letteraria – affrontare quel periodo significa anche parlare del nostro presente. Coloro che recuperano, oggi, la retorica politica di quel decennio sono gli stessi che riducono tutto il passato recente della storia argentina ai pochi anni della dittatura militare.
Ricordo che quando l’Argentina fu paese ospite alla fiera del libro di Francoforte, il suo padiglione raffigurava solo gli anni della dittatura militare, come se tutta la storia del paese si potesse ridurre a quei sette anni di terrore. Eppure, agli inizi del nuovo secolo, l’Argentina aveva attraversato una crisi politica ed economica terribile… Questo legame non risolto con quella pagina della nostra storia credo dipenda dal fatto che l’esperienza della dittatura sia tutt’ora vissuta, dagli stessi argentini, come un crimine costitutivo: il nostro peccato originale e lo scandalo cui sempre ritorniamo e a cui sempre ci paragoniamo.
In questa ottica, la narrazione romanzesca come si situa?
Per me l’esperienza della trilogia ha rappresentato il modo più congeniale per emanciparmi dalla eredità degli anni Settanta: ne ho scritto per liberarmi e lasciarmi alle spalle quel capitolo. Ne ho scritto perché per realizzare è necessario dimenticare, come se l’azione rivendicasse uno spazio che solo l’oblio può fornirle.
È per questo che ha scelto, rispetto alla storia, punti di vista eccentrici e prospettive inusuali?
Sì. Da principio, pur essendomi chiara la necessità di affrontare un tema del genere, mi intimidiva parlarne. Per questo ho cercato vie di accesso non ufficiali, quasi entrando dalle porte di servizio; quello che mi premeva, quando ho trovato la chiave più congeniale, era la connessione tra intimità e politica. In questo senso, le costellazioni famigliari e i microcosmi sociali che ho descritto mi consentivano di dedicarmi pienamente a questa articolazione, ovvero alla particolare dinamica che si svolge tra il privato e il pubblico.
È un mutamento radicale rispetto al «Passato», il romanzo che ha preceduto questa trilogia…
Sì, perché nel Passato le dimensioni politiche e storiche erano escluse dallo svolgimento della narrazione, come se la relazione amorosa dei protagonisti escludesse qualsiasi altra possibilità di racconto. Tuttavia, da un certo punto di vista, anche il Passato è legato a quegli anni Settanta, ma lo è in quanto romanzo della dittatura: i personaggi si rifugiano nel sentimento amoroso come in un bunker, per proteggersi da ciò che sta accadendo fuori, sul piano delle relazioni socio-politiche. Ed è proprio questo piano esterno e pubblico che restava escluso che ho voluto approfondire, invece, nella trilogia.
Un cambio di prospettiva che si avverte già nella diversità radicale dei titoli…
Nella trilogia ho scelto di intestare ciascuna stazione come Storia perché i libri, pur rimanendo saldamente ancorati alla loro fisionomia romanzesca, potessero essere letti anche come documenti, secondo una concezione del fatto letterario che risale, a mio avviso, proprio agli anni Settanta.
Nella sua scrittura, soprattutto in «Storia del denaro», è molto presente un elemento di matrice cinematografica. Per lei, che è figlio di un attore e produttore e che ha lavorato a sua volta come interprete in sette pellicole, cosa rappresenta esattamente il cinema?
Al di là dei riferimenti testuali a questo o a quel film che si possono ritrovare nei miei romanzi, l’interesse per il cinema è innanzitutto formale, perché ritengo che il piano-sequenza sia una struttura ideale anche per una frase. Sono stato sempre affascinato dal modo in cui il cinema risolve problemi come la creazione di uno spazio-tempo, ed è questo meccanismo che ho cercato di riprodurre nella scrittura della trilogia, forse ancor più che negli altri miei libri: è qui che la frase, e per essa tutta la dimensione romanzesca, produce una sorta di continuità molto peculiare. Si immagini che, al momento di accingermi a scrivere la Storia del pianto, sono stato tentato dall’idea di svolgere l’intera vicenda in un’unica, ininterrotta frase. Sebbene in seguito abbia abbandonato questa intenzione, l’idea di fondo, ovvero restituire una sorta di flusso costante, visivo e linguistico, è rimasta.
Lei è oggi uno degli scrittori argentini più apprezzati anche all’estero, dove è sempre maggiore l’attenzione editoriale per la nuova letteratura latinoamericana. Si può dire si stia assistendo a un nuovo boom dopo quello che fece conoscere scrittori come Vargas Llosa, Garcia Márquez e Cortázar tra gli altri?
Non direi. La letteratura del cosiddetto boom era legata, a mio parere, soprattutto a un’immagine esotica della cultura latinoamericana, un’immagine a un tempo molto generale, ma anche assai specifica. Oggi non mi sembra che questa attenzione si stia riproponendo. La letteratura latinoamericana deve competere, sul piano dell’esotismo, con diverse realtà che quarant’anni fa non erano nemmeno immaginabili. Certo, ogni tanto esplode un fenomeno, ma si tratta di episodi isolati, che tendono a omogeneizzare piuttosto che a ricercare differenze e pluralità di voci.
È quello che è accaduto, ad esempio, con Roberto Bolaño, ma l’interesse internazionale verso la sua opera ha portato, come controindicazione, a una sorta di bolañizzazione della letteratura latinoamericana, sicché gli editori e l’industria culturale non si sono aperti alle differenti realtà letterarie successive agli anni Settanta, ma vogliono solo dell’altro Bolaño da leggere o, nel migliore dei casi, un nuovo Bolaño da pubblicare.
Qual è il suo rapporto con la letteratura del suo paese e con Borges, cui ha dedicato, nel 1996, i nove saggi raccolti nel volume «El factor Borges», di prossima pubblicazione in Italia?
Molto stretto. Mi sento profondamente argentino nel modo di pensare. Lo stesso tema che credo di aver affrontato nella trilogia e che mi sta più a cuore – il tema del dubbio – nasce dalla lettura di Borges, da cui ho imparato che, pur nell’estremo controllo, nella scrittura non c’è mai nulla di evidente, di prevedibile.
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