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L’intenzionalità degli artefatti

L’intenzionalità degli artefattiKakongo subgroup. Power Figure Nkisi Nkondi, 19th century, Brooklyn Museum, Museum Expedition 1922, Robert B. Woodward Memorial Fund

Antropologia Attribuire a una statuetta o a un dipinto una natura prossima a quella umana, scrive Carlo Severi, è un bisogno alle radici dell’esperienza estetica:«L’oggetto-persona»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 luglio 2018

Sarebbe interessante conoscere la reazione di Carlo Severi di fronte ad alcune affermazioni che troviamo in un libro di Thomas Hylland Eriksen, antropologo a Oslo, pubblicato da Einaudi l’anno passato: Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato. Ecco per sommi capi le sue tesi: ormai, «è necessario riconoscere, una volta per tutte, che il mescolamento e il cambiamento accelerato, la connessione e la diffusione della modernità sono l’aria che respiriamo nel mondo di oggi» e che «le diversità culturali si sono ristrette da quando le persone nel mondo hanno cominciato a partecipare a una conversazione globale». È vero che «l’antropologia stenta a fare i conti con il mondo attuale», ma «in un mondo del genere, pretendere che l’antropologo si limiti a studiare culture remote non sarebbe solo fuorviante, ma anche in cattiva fede». «In un mondo del genere, il nobile sguardo dell’antropologo aristocratico alla ricerca di aspetti di comparazione interessanti appare non solo datato, ma anche, in un certo senso, insapore». «Il grande cambiamento è stato che il mondo, di fatto nella sua interezza, si è trasformato in un unico spazio morale, e questo mentre gli antropologi guardavano da un’altra parte».

Non solo culture esotiche
Severi continua a guardare da un’altra parte? Con il suo ultimo libro, L’oggetto persona, Rito Memoria Immagine (Einaudi, pp. XVIII – 382, € 30,00) a me pare di sì, e che il suo sguardo non disdegni affatto di farsi «nobile» e «aristocratico». Forse è anche «datato», se teniamo conto degli appelli (come quello di Eriksen) per un’antropologia del mondo contemporaneo e della globalizzazione. Ma il sapere, che il suo sguardo volutamente comparativo ci offre, è tutt’altro che «insapore» e non si limita affatto a studiare culture esotiche. Non so se Severi sarebbe d’accordo con me nel sostenere le ragioni di quella che ho chiamato una «antropologia inattuale» (Eleuthera 2014). Il suo libro invita comunque ad addentrarsi in luoghi culturali lontani non per perdervisi, bensì per acquisire prospettive e strumenti che consentano di capire meglio anche ciò che avviene a casa nostra. E si muove in netta continuità con quanto già ci aveva illustrato nel suo precedente libro, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria (Einaudi, 2004) – nel quale si era soffermato sui rapporti tra immagini e tradizioni orali, facendoci superare così, in maniera decisamente innovativa, l’opposizione troppo rigida tra società della scrittura da un lato e società dell’oralità dall’altro. L’effetto – tipico di un’antropologia a cui non intendiamo rinunciare – è stato quello di inserire Europa o Occidente in un ambito più vasto, «in una serie ideale di tecniche del pensiero» e della «memoria».

In questo nuovo libro, Severi ritorna sul concetto di immagine, intesa come un oggetto costruito, artefatto, di per sé inanimato – quale può essere, per esempio, una bambola – che, in certe condizioni, acquisisce però la capacità di agire, di manifestare pensieri, emozioni, parole, di diventare cioè una persona. Tutti noi, nella nostra vita quotidiana – e non soltanto i bambini con i loro giocattoli – ci comportiamo «come se» gli oggetti con cui interagiamo (computer, automobili e così via) avessero una loro intenzionalità: ci rivolgiamo a loro come se fossero persone. Ma mentre questi fenomeni, pur ricorrenti, sono senza dubbio episodici e revocabili, esistono tuttavia molte altre manifestazioni, soprattutto di ordine rituale o quasi rituale, in cui oggetti specifici acquisiscono questa capacità di agire in maniera decisamente sistematica.

Legami di credenza
Da antropologo esperto e professionale qual è, Severi ci conduce in una molteplicità di contesti per vedere oggetti culturalmente costruiti, a cui – in maniera altrettanto culturale – viene attribuita una capacità di intenzione e di interazione particolarmente efficace e incisiva nella vita sociale. Un esempio per tutti: il «feticcio a chiodi», detto nkisi, tipico dell’Africa equatoriale (una statua di legno con tanti chiodi conficcati nel suo «corpo»), che viene ritenuto in grado di agire e di reagire, spesso con violenza e con spirito di vendetta.

Ma di cosa stiamo parlando: di fenomeni infantili, episodici, da selvaggi? Fenomeni dunque marginali e di scarto? Non stiamo forse dando ragione a Eriksen, quando incolpa l’antropologia di occuparsi di fenomeni e di culture esotiche? L’etnografia che Severi mette in campo fornisce una tale quantità di materiali e una tale ramificazione di implicazioni concettuali che ben presto il lettore si rende conto di non trovarsi affatto in zone marginali della cultura e del pensiero umano. Certo, le pagine intense dedicate alla funzione del kolossos – semplice pietra appena sbozzata che, nella Grecia antica, fungeva da sostituto del defunto – ci porta ancora verso epoche arcaiche, e la tendenza a considerare tale credenza come qualcosa di primitivo può indurre il lettore a interpretare il viaggio di Severi come proiettato in aree a noi lontane ed estranee. In definitiva, che ci importa se altrove e in altri tempi ci si abbandona alla credenza che attribuisce a oggetti inanimati volontà e intenzionalità tipiche di una persona?

Nell’arte dell’occidente
Tuttavia, il viaggio di Severi non si limita affatto a un’etnografia esotica: interi capitoli del suo libro sono infatti dedicati all’arte occidentale e persino all’arte astratta e sono magistrali le pagine con cui esamina i problemi della prospettiva nell’arte rinascimentale. Come dargli torto, quando afferma che gli antropologi dell’arte, invece di limitarsi a «studiare quasi esclusivamente le arti non occidentali o le forme «popolari», «patologiche» o infantili delle arti europee», dovrebbero affrontare, con i loro strumenti professionali, «la “grande arte”dell’Occidente», le sue correnti, i suoi artisti? È ciò che Severi fa in questo suo libro complesso, intenso, coinvolgente, nel quale il passaggio dai feticci nkisi o dalle maschere della costa americana di Nord Ovest a Kandiskij o a Leonardo gli consente di ripristinare quasi il concetto di «magia di un’opera d’arte», in quanto, «sia essa una statuetta, un disegno o un dipinto, può acquisire una personalità prossima a quella di un essere umano». Di qui una delle conclusioni più significative a cui Severi arriva sul piano antropologico: «l’idea di una “vita” associata all’immagine non è una semplice credenza esotica, proveniente da paesi lontani o primitivi. È, al contrario, una delle radici universali dell’esperienza estetica». Siamo però pur sempre noi, esseri umani, che oltre a costruire un’immagine, feticcio o affresco che sia, le attribuiamo una «vita» e lo facciamo sulla base di una «finzione», di una «credenza», stabilendo così ciò che Severi chiama «un legame di credenza» tra l’immagine «viva» e il suo fruitore.

Siamo nati per credere?

Su questo punto l’autore invoca l’esistenza di un «bisogno», che – come afferma alla fine del suo libro – «può farsi sentire ovunque e in ogni momento». Nel primo capitolo del libro, Severi definisce la produzione di immagini – e aggiungiamo: di immagini «vive», in cui credere – come «un fatto di specie», tipico cioè della specie umana. Ma allora ci siamo evoluti per credere, siamo cioè «nati per credere»? È così che Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara avevano in effetti intitolato un loro libro del 2008: lì si era su sponde biologiche, dunque piuttosto lontane da quelle di Carlo Severi; ma magari a qualche lettore potrà balzare in testa l’idea di un ponte, di un qualche collegamento curioso e istruttivo, oltre che inatteso.

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