Il 6 agosto ricorre il cinquantesimo anniversario della morte del filosofo e sociologo Theodor W. Adorno, scomparso inaspettatamente durante le vacanze estive sulle montagne svizzere, ai piedi del Cervino. All’epoca, l’evento ebbe un grande risalto giornalistico. La stampa internazionale gli tributò vasti riconoscimenti e numerosi documentari sulla movimentata vita e l’opera del pensatore nato nel 1903 furono trasmessi dalle radio e dalle televisioni.

ADORNO HA SEMPRE cercato di affrontare i mali del mondo, compresa la morte («una vergogna dell’uomo»), con gli strumenti della riflessione critica, ogni volta superando i confini delle singole discipline. È vero che generalmente è stato accompagnato dalla reputazione di essere un pensatore complicato, ossia un pensatore dialettico della negazione determinata.
Questo giudizio, tuttavia, trascura il fatto che, dopo i quindici anni di esilio in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove fu costretto a fuggire a causa della dittatura hitleriana, dal primo dopoguerra, nella Repubblica Federale tedesca, Adorno si è occupato anche di questioni molto pratiche, ad esempio la ricostituzione di una cultura politica e la riforma della formazione degli insegnanti. Nell’intento di «educare alla responsabilità», uno dei motivi più ricorrenti fu la crisi e la decadenza della cultura, una questione complessa che oggi è tornata quanto mai attuale.
Ancora più centrale – e offensiva, all’epoca – era la richiesta di un’educazione che tenesse conto di un fatto storico mostruoso come i crimini contro l’umanità di Auschwitz. Sulla minaccia del redivivo radicalismo dell’estrema destra nella giovane democrazia rappresentativa si possono rileggere le pagine di «Che cosa significa elaborazione del passato» o «Per combattere l’antisemitismo oggi» (saggi tradotti in italiano nel volume Contro l’antisemitismo, manifestolibri).
Oppure riascoltare il linguaggio articolato e la voce pregnante delle rubriche radiofoniche con cui, quasi settimanalmente, nel ruolo giornalistico di critico del proprio tempo, Adorno si impegnò nella missione di «illuminazione sociologica».
Per colui che ha sentenziato con gesto provocatorio che scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, la rielaborazione del passato poteva essere conclusa solo dopo aver eliminato le cause sociali che l’avevano prodotto. Tra queste, in primo luogo, l’impotenza dell’individuo di fronte alle tendenze opache e schiaccianti dell’insieme sociale.

NEL RUOLO dell’intellettuale pubblico, Adorno, come Hannah Arendt e Karl Jaspers, si è assunto il rischio di abbandonare la torre d’avorio della scienza pura per affrontare i temi interdetti nella patria dei colpevoli. Tuttavia, l’influenza che ebbe sui modi di pensare del dopoguerra non è la ragione principale della sua attualità a cinquant’anni dalla morte.
Il fatto che il modo adorniano di fare teoria sociale non sia polveroso è dimostrato dalle numerose riedizioni del suo libro più famoso, la raccolta di aforismi sulla «vita offesa» dal titolo Minima Moralia, ma anche dai tanti convegni e congressi annuali in cui si discute la tensione propria del pensiero adorniano tra il «negativismo» e l’etica della vita giusta.
L’editore Suhrkamp sta ora cogliendo l’occasione dell’anniversario per attualizzare Adorno e le sue diagnosi dell’epoca. Le eminenti doti di Adorno, quale sintesi di analista sociale e intellettuale pubblico, sono documentate in modo particolarmente vivido dal volume delle opere complete curato da Michael Schwarz che include venti conferenze del periodo 1949-1968, recentemente uscito da Suhrkamp (Vorträge 1949-1968. Herausgegeben von Michael Schwarz, Berlin, Suhrkamp, 2019). Qui il lettore si confronta in blocco con tutti gli «interventi opposizionali» di Adorno, che ebbero un’influenza significativa sul clima culturale e politico di quegli anni.

PROPRIO IN COINCIDENZA con l’anniversario della morte Suhrkamp ha pubblicato un saggio inedito, ma non sconosciuto, sugli Aspetti del nuovo radicalismo di destra – il testo di una conferenza tenuta a Vienna nel 1967, seguito da un istruttivo commento dello storico Volker Weiß (Aspekte des neuen Rechtsradikalismus – Ein Vortrag, Berlin, Suhrkamp, 2019). Adorno vi analizza aspetti del nuovo radicalismo di destra, definito «fantasma di un fantasma» (Gespenst eines Gespenst), che possiamo trasferire all’interpretazione delle attuali varianti del populismo di destra, per le quali sembra davvero calzante la formula adorniana sulla interna relazione tra «sistema folle e perfezione tecnologica». Altrettanto degno di nota è il dibattito in corso negli Stati Uniti, innescato dallo storico di Harvard Peter E. Gordon.
Come curatore dell’ultima edizione della Authoritarian Personality, egli ha sollevato la questione in che misura la ricerca sociologica di Adorno sulla personalità autoritaria contenga un dirompente potenziale interpretativo che contribuisce a spiegare il successo di Donald Trump. Tra i suoi elettori è stata rilevata una tendenza all’autoritarismo, che va di pari passo con il pensiero stereotipato e la denigrazione degli stranieri e delle minoranze – tutti tratti paranoici che Adorno aveva riscontrato nel suo studio della fine degli anni Quaranta, come modello di reazione autoritaria.
Lo storico americano avalla l’interpretazione secondo cui il carattere autoritario non può essere spiegato principalmente sul piano psicologico. Piuttosto, la sindrome è il prodotto dell’introiezione di esperienze di strumentalizzazione e di controllo estraneo sull’uomo nella società moderna, che contribuiscono all’indebolimento dell’individuo.
Questo specifico punto di vista sociologico è stato accentuato da Adorno, in particolare, nelle «Osservazioni sulla personalità autoritaria», che non furono pubblicate all’epoca ma che ora sono finalmente disponibili e rese accessibili in un volume con una prefazione e un epilogo di facile lettura (Bemerkungen zu The Authoritarian Personality und weitere Texte, a cura di Eva-Maria Ziege, Berlin, Suhrkamp 2019).
In occasione dell’anniversario della morte di Adorno, queste pubblicazioni non sono solo l’espressione di un rinnovato interesse per le sue diagnosi sull’autoritarismo, ma anche il segno di una nuova Adorno-Orthodoxie – anche se, per contro, questa lettura canonica è incompatibile con lo spirito di una teoria critica la cui intima convinzione è che ogni verità serbi in sé un nucleo temporale.

NEI DUE LIBRI, la conferenza viennese sul radicalismo di destra e le «Osservazioni» americane del 1948 sull’interesse conoscitivo negli studi sulla personalità autoritaria, non c’è fondamentalmente nulla che Adorno prima o poi non abbia detto o scritto altrove. Ma ciò non sminuisce il fatto che grazie alle due edizioni diventano trasparenti non solo le concrete origini e occasioni delle diagnosi adorniane, ma piuttosto la continuità con cui egli, come intellettuale pubblico, prese la parola e intervenne nei dibattiti, mosso da una responsabilità interiore, un impulso a penetrare le apparenze superficiali e andare sino in fondo alle cose.
Così, nelle «Osservazioni», egli sottolineava come il carattere autoritario – potenzialmente fascista e, quindi, pericoloso per la democrazia – rappresenti un’unità strutturale esplosiva e possa essere interpretato come espressione di una nuova costituzione antropologica dell’uomo nella società tardo-capitalistica.
Gordon adotta questo punto di vista. Per lui, il trionfo del trumpismo è il risultato di sviluppi socio-politici patologici e vi include espressamente anche il declino del giornalismo serio, sostituito da un’opinione demagogica e dall’infotainment. Naturalmente, Adorno non poteva essere in grado di prevedere gli attuali segnali di decadenza della comunicazione nella sfera pubblica, soprattutto nei social media. Ma le sue ricerche sullo stereotipo del Ticket-Denken («pensare per tickets») e le analisi sull’onnipresenza dell’«industria culturale» contribuiscono a sensibilizzarci al «falso». Secondo Adorno, questa pratica era una conditio sine qua non per maturare la consapevolezza di ciò che egli intendeva con l’espressione «vita giusta».

(Traduzione di Luca Corchia e Leonardo Ceppa)