Cultura

L’insostenibile trasparenza dei traduttori

L’insostenibile trasparenza dei traduttori

Express Il j'accuse di Jennifer Crowe, che ha trasportato i «Vagabondi» di Olga Tokarczuk dal polacco all'inglese e vinto con lei il Booker Prize. Ma avere i nome in copertina per chi lavora con le parole altrui è ancora un miraggio

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 16 settembre 2021

Nel 2017 la statunitense Jennifer Crowe ha ricevuto uno dei principali premi letterari nel mondo, l’International Booker Prize, e tuttavia è decisamente improbabile che in Italia il suo nome suoni familiare anche ai lettori più avvertiti. Una disattenzione imperdonabile da parte delle nostre case editrici? Per la verità no, dato che il riconoscimento è valso a Crowe non per un libro concepito da lei, ma per la sua traduzione dal polacco all’inglese del romanzo Bieguni di Olga Tokarczuk, co-destinataria del premio, e l’anno successivo insignita anche del Nobel. (Il libro, intitolato in inglese Flights, è uscito in italiano per Bompiani come I vagabondi nella versione di Barbara Delfino).

Quando sei anni fa gli organizzatori del Booker International hanno deciso di modificare lo statuto del premio, dividendo a metà la cifra assegnata – complessivamente 50mila sterline – tra autori e traduttori, la decisione è stata accolta con entusiasmo da tutti coloro che si guadagnano, e a volte si dannano, la vita scegliendo le parole giuste per portare un’opera letteraria da una lingua all’altra. È finito il tempo dell’invisibilità, hanno pensato in molti, o più precisamente in molte, dato che proprio l’elenco dei vincitori del Booker attesta come a tradurre siano soprattutto donne.
E invece non è così, stando a quanto scrive sul Guardian la stessa Jennifer Crowe in un intervento accaloratissimo che prende le mosse da una citazione attribuita allo scrittore israeliano Etgar Keret: «I traduttori sono come i ninja. Se ti accorgi di loro, non va bene». Questa immagine del traduttore costretto alla trasparenza a Crowe non va affatto giù: «L’idea che un traduttore letterario, alla pari di un ninja, sia pronto da un minuto all’altro a fare attacchi a sorpresa, quasi volessimo ingannare i lettori nel quadro di un elaborato complotto mercenario, è tra le più tossiche della letteratura mondiale». Crowe ammette che negli ultimi anni la condizione dei traduttori è migliorata, sia riguardo ai pagamenti, sia rispetto alla visibilità. Eppure la lista dei «ma» resta ancora troppo lunga. Prima di tutto, «negli Stati Uniti (come del resto in Italia, ndr) i traduttori non percepiscono royalties». Che un libro venda poche copie e vada rapidamente fuori catalogo, che diventi un best seller planetario o che infine si riveli un long seller destinato a un buon numero di riedizioni, dal punto di vista economico per chi lo ha tradotto non cambia niente.

Più di questo, però, a bruciare a Crowe, è che il nome del traduttore o della traduttrice non appaia in copertina. Perfino nel Regno Unito, dove ha sede il Booker, le case editrici non hanno seguito l’indicazione implicita del premio: «At Night All Blood is Black di David Diop, vincitore dell’edizione 2021, edito da Pushkin Press, non porta il nome di Anna Moschovakis in copertina, anche se – sempre in copertina – ci sono tre citazioni debitamente firmate. Insomma, quattro nomi, ma evidentemente quello di Moschovakis, che ha scritto ogni parola del testo, sarebbe stato di troppo».
Di fronte a queste reiterate omissioni Crowe non soltanto protesta («Le copertine semplicemente non possono continuare a nascondere chi siamo. È un cattivo affare, non ci rende responsabili delle nostre scelte, e nel suo deliberato offuscamento è una pratica irrispettosa non solo per noi, ma anche per i lettori»), ma ipotizza una vera e propria strategia: «Il sottinteso da parte di molti editori sembra essere che i lettori non si fidano dei traduttori e che non compreranno un libro se si rendono conto che è una traduzione».
Sarà vero? La parola alle case editrici.

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