Circa 100 ore di trasmissione al giorno di talk televisivi: è la nuova dieta mediatica.
Non fu così per tanti anni, quando l’informazione era sinonimo di radio e telegiornali, e gli approfondimenti consistevano in rubriche speciali né usurate né ripetitive. Arrivarono la seconda rete della Rai diretta da Massimo Fichera che rilanciò la caposcuola Cronaca creata da Renato Parascandolo e Raffaele Siniscalchi e in seguito l’epopea del terzo canale (dalla Samarcanda di Michele Santoro in poi), cui Angelo Guglielmi impresse un marchio indelebile, e al quale il servizio pubblico deve molto della sua residua identità. Altri nomi si potrebbero evocare: da Enzo Biagi, a Sergio Zavoli, innanzitutto. La lista è lunga, non lunghissima in verità.

Via via il quadro è degenerato. In troppi casi i cosiddetti talk sono pure esibizioni di opinioni espresse negli studi da persone non necessariamente esperte della materia trattata. Anzi. Il denominatore comune del format attuale è la litigiosità, spesso esagerata e artificiosa. Se si aggiunge che risulta essere diffusa la pratica di dare un compenso economico agli ospiti (nessun moralismo, ma trasparenza sì), il dubbio è che si sia di fronte ad un teatrino dove si recita a soggetto. Insomma, chi sta davanti allo schermo non assiste ad una effettiva discussione, bensì ad una recita. Come sempre, le eccezioni non mancano (Presa diretta o Report, per citarne qualcuna), ma sono proprio poche. E, comunque, persino quando vi sono conduttrici o conduttori seri e professionali, una quota parte del programma è dedicata allo spettacolo maldestro utile ad ampliare a dismisura la durata della trasmissione. Soprattutto nella fascia notturna sale lo share, non essendoci reale concorrenza.

Un centinaio di ore, ma solo una ventina di personaggi dediti ad occupare il video anche più volte nella stessa giornata. Una compagnia di giro, orchestrata a dovere, con figure estreme costruite a tavolino per far salire l’ascolto.
In verità, se si studiano le curve dell’audience, si osserva che le urla o le esibite volgarità non hanno un gran peso. Va sottolineato, tra l’altro, che i talk -salvo qualche caso- diminuiscono e non aumentano i contatti della rete che li ospita.

La faglia è stata la stagione (considerata chiusa dai media, non dal dai malati) della pandemia. A partire dall’inizio del 2020 si è avuta l’invasione di virologi, epidemiologi, clinici di svariata credibilità. La strisciata non stop dedicata al Covid ha portato ad un punto di svolta negativo. La rappresentazione dei punti di vista si è staccata progressivamente dalle loro basi scientifiche. L’utilizzo a fini strumentali di questo o quel No-Vax ha fatto il resto. Purtroppo, una vicenda dolorosa per migliaia di esseri umani è stata trasformata in una disarmante messa in scena.

Tuttavia, l’orribile stagione della guerra, con l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, sta portando una tendenza già inquietante alle peggiori conseguenze. La trasformazione del conflitto (con le atrocità esibite per aumentare l’attrattiva del dolore e della morte) in cinica narrazione seriale è un rischio tangibile.

Dal medical al war drama: le logiche e le retoriche della (non migliore) serialità televisiva hanno preso il sopravvento.
Per salvare l’informazione è necessaria una discontinuità. Si riprenda un effettivo approfondimento e si decida una moratoria dei talk. La ridondanza che si è determinata è una sorta di pornografia, senza neppure il fascino un po’ perverso del kitsch. Con simile insana eccedenza sta agonizzando proprio la televisione generalista, che fonda la propria autorevolezza sulla credibilità e sulla reputazione di ciò che corre nel flusso giornaliero delle voci e delle immagini. Altrimenti, vince la dittatura dell’istantaneità dei social, vere o false che siano le notizie. La quantità veloce prevale sull’argomentazione seria.

L’appello al ripensamento va rivolto alla commissione parlamentare di vigilanza, nonché all’autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Serve un indirizzo su di una materia delicata, che agisce sul lato oscuro dell’immaginario.