L’insostenibile costo ecologico dell’uovo di Pasqua
Cosa hanno in comune l’uovo di Pasqua e l’ecologia? Che relazione c’è tra il cioccolato, l’ambiente e i diritti umani? Ci sono millenni di stratificazione culturale alla base della tradizione pasquale. Anticamente le uova erano simbolo di vita, di comunione tra terra e cielo. Rappresentavano l’origine del tutto per gli Egizi. La natura che rinasce per i Persiani. La resurrezione per i cristiani. L’invenzione delle uova di cioccolato si attribuisce al re Sole. A diventare presto esperti furono i sabaudi, con la bottega della signora Giambone a Torino.
L’idea di custodire un regalo all’interno resta una disputa tra piemontesi e russi. L’orafo di corte dello zar Alessandro III, Peter Carl Fabergé, preparò numerosi esemplari di uova decorate in platino, contenenti uova in oro a matrioska. La spiritualità e il misticismo, così come l’esclusività, col tempo hanno lasciato il passo al consumismo. I reparti dei supermercati strabordano di uova di Pasqua in questi giorni. Pronte per essere vendute, scartate, con la frenesia di scoprire la sorpresa messa via l’istante dopo. C’è chi ha fatto dell’uovo pasquale un brand personale con tanto di foto e nome stampati sulla confezione. Chi si affretta a cercare quello artigianale pregiatissimo e chi si accontenta del marchio arcinoto magari a buon prezzo. Lo scorso anno, secondo le stime, in Italia ne sono stati venduti 10, 1 milioni. Il 33,9% in meno rispetto al 2020. Un calo attribuito alla pandemia.
TRASTULLARSI NEL PARADISO DEI DOLCIUMI è davvero solo una coccola genuina o le grandi quantità di cioccolato immesse sul mercato a Pasqua dovrebbe indurci a una qualche riflessione sulla provenienza? Per comprendere gli impatti ecologici delle uova di Pasqua occorre partire dagli ingredienti. Più amari di quanto si pensi. Il primo è il cioccolato. L’industria del cacao fattura oltre 100 miliardi l’anno. La filiera inizia dai piccoli agricoltori, spesso sottopagati, soprattutto dell’Africa occidentale e centrale. La Costa D’Avorio detiene oltre il 40% della produzione mondiale.
Seguito dal Ghana e da alcuni paesi latinoamericani. Il maggiore acquirente è l’Ue. Un mese fa a Bruxelles ai microfoni di RFI e di France 24, Alassane Ouattara, presidente del paese africano in testa per esportazioni, alla domanda sulla crescente deforestazione causata dalla coltivazione del cacao ha risposto senza peli sulla lingua: «I paesi europei, con il pretesto di combattere il riscaldamento globale, si sono presi la libertà di indicare il cacao come uno dei problemi. Qui ci sono paesi che hanno inquinato il mondo intero e ora vogliono darci lezioni? Cosa rappresenta l’Africa in termini di inquinamento? Il 4%! E il 96% di chi è? È degli occidentali!».
L’AMPLIAMENTO DELLE PORZIONI DI TERRA destinate alla produzione di cacao ha prodotto sia in Costa D’Avorio sia in Ghana, dal 2019 ad oggi, una perdita consistente di foresta tropicale, rispettivamente di 19.421 e di 39.497 ettari – denuncia Mighty Earth, l’organizzazione globale americana – «pari alle dimensioni di città come Madrid, Seul o Chicago». Ciò ha comportato ingenti danni alla flora e alla fauna. «Questo fenomeno – si legge nel rapporto – è legato ad altri problemi, come l’uso eccessivo di pesticidi dannosi per l’uomo e per la natura, così come le cattive condizioni di lavoro e i bassi redditi dei coltivatori di cacao e dei lavoratori agricoli».
Anche i paesi consumatori di cioccolato dovrebbero – secondo gli attivisti – introdurre normative di «dovuta diligenza» per le aziende del settore, vincolandole ad acquistare cacao nel rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. Un appello all’Ue per regolamentare l’immissione sul mercato di cioccolato «senza deforestazione» è arrivato anche dalla fondazione internazionale Idh-The Sustainable Trade Initiative, fondata nel 2008 per incentivare il commercio sostenibile attraverso partnership pubblico-private.
«Il settore del cacao nei paesi dell’Africa occidentale e centrale – spiega l’organizzazione – produce circa il 70-80% del cacao globale. La maggior parte dei 2 milioni di famiglie di coltivatori di cacao su piccola scala stimati nella regione non guadagnano un reddito per vivere. La catena di approvvigionamento del cacao include rischi relativi al lavoro minorile, al cambiamento climatico, alla deforestazione e al degrado delle foreste. Queste sfide sono ampiamente riconosciute dal settore del cacao e hanno portato a impegni settoriali e aziendali con la Cocoa & Forests Initiative e la Roadmap to Deforestation-free Cocoa».
Nel 2020 il National Opinion Research Center dell’Università di Chicago ha stimato che «i bambini impegnati nel lavoro minorile pericoloso nella produzione di cacao nelle regioni di coltivazione di Costa d’Avorio e Ghana sono aumentati di 13 punti percentuali in un periodo di 10 anni (dal 2008-09 al 2018-19). L’aumento ha coinciso con una crescita del 62% della produzione di cacao nei due paesi». I pericoli per i minori vanno dall’uso di strumenti affilati impiegati per il disboscamento, al numero di ore di lavoro elevato (anche notturno) e all’esposizione a prodotti chimici.
TRA GLI ALTRI INGREDIENTI DELLE UOVA DI PASQUA ci sono anche l’olio di palma e lo zucchero. Per quanto concerne il primo, una ricerca pubblicata nel 2020 su Nature dal titolo The environmental impacts of palm oil in context stima che la domanda di oli vegetali aumenterà del 46% entro il 2050. «La recente espansione della palma da olio nelle regioni forestali del Borneo, di Sumatra e della penisola malese, dove viene prodotto più del 90% dell’olio di palma globale – si legge – ha portato a una notevole preoccupazione per il ruolo della palma da olio nella deforestazione. Si va da un 3% nell’Africa occidentale al 50% nel Borneo malese.
La palma da olio è anche implicata nel drenaggio e nell’incendio delle torbiere nel sud-est asiatico. Gli impatti ambientali negativi includono declino della biodiversità, emissioni di gas serra e inquinamento atmosferico». Nessun continente è escluso dall’impatto ecologico della produzione di cioccolato. Neanche l’America, con migliaia di ettari di foresta Amazzonica depredata dai coltivatori di canna da zucchero. Nel 2019 il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ne ha annullato il divieto di coltivazione, confermandosi il primo paese produttore di zucchero. Seguito da India e Cina. Con l’Ue in testa tra i consumatori.
A pagarne le conseguenze dirette sono la biodiversità e i popoli indigeni, espropriati per cedere il posto a colture intensive. L’altro elemento dirimente per comprendere l’impatto ecologico delle uova di Pasqua è l’impiego ancora diffuso di pellicola, cartone e plastica per l’involucro e le sorprese. A febbraio di quest’anno, l’Ocse ha pubblicato il rapporto Global Plastics Outolook in cui denuncia che nel 2019 sono stati prodotti 460 milioni di tonnellate di plastica, di cui 353 milioni di tonnellate sono diventati rifiuti. Tuttavia solo il 9% è stato riciclato. Il resto è stato incenerito o è finito in discariche controllate o, nel caso del 22% della plastica, è stato selvaggiamente accatastato con altri rifiuti e bruciato.
Nel 2019 la cooperativa indipendente Ethical Consumer, sulla base dell’impatto etico e ambientale, ha pubblicato una classifica di 34 marchi di uova di Pasqua. «Raccomandiamo di comprare cioccolato – spiegano – da aziende che stanno facendo qualcosa per affrontare la povertà nelle regioni di coltivazione del cacao, poiché la povertà è la grande ragione alla base della maggior parte dei problemi del cioccolato». Il consiglio ai consumatori è di accertarsi che sulla confezione vi sia il marchio di certificazione del commercio equo e solidale, come Fairtrade e Rainforest Alliance.
«Molte delle grandi aziende – dicono – hanno creato proprie certificazioni. Ma in alcuni casi tendono ad essere piuttosto vaghe sul contenuto e sul premio prezzo per gli agricoltori». Dalla lista di Ethical Consumer emerge che i punteggi più bassi sono riferiti alle aziende Nestle e Ferrero, entrambe contattate dal Manifesto senza esito. La Ferrero peraltro in questi giorni è alle prese con il sequestro di alcuni lotti di ovetti per presunti casi di salmonella. Non hanno raggiunto la sufficienza neanche Mondelez, Mars, Hotel Chocolat, Guylian e Tesco. Tra le aziende migliori invece ci sono Divine, Plamil, Moo Free, Booja Booja, Cocoa Loco, Montezuma, Traidcraft e Lindt.
Quest’ultima ha raccontato che «la maggior parte del cacao di consumo del Gruppo Lindt & Sprüngli proviene dal Ghana. Il restante da Ecuador, Madagascar, Papua Nuova Guinea e Repubblica Dominicana. In tutti questi paesi è attivo il Farming Program, il programma di sostenibilità nato nel 2008 per migliorare i mezzi di sussistenza degli agricoltori e garantire una sempre maggiore coltivazione sostenibile del cacao. Dal 2020 – conclude l’azienda – il 100% delle fave di cacao impiegate sono tracciate e verificate. Lo zucchero usato proviene prevalentemente da barbabietola dell’Ue e gli incarti delle uova di Pasqua Lindt sono tutti riciclabili».
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