Visioni

L’insolito destino di due «irregolari» del free jazz

L’insolito destino di due «irregolari» del free jazz

Musica Addio a Giuseppi Logan e Henry Grimes, musicisti afroamericani uniti dalla vicenda della loro uscita dalle scene più o meno nello stesso periodo, alla fine degli anni ’60

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 23 aprile 2020

Uno legato al freejazz o alla new thing, se volete, e solo a quella corrente musicale. L’altro consacrato dal freejazz o new thing ma già da prima in carriera nel jazz che fu detto «moderno» in performances non esattamente mainstream. Due musicisti afroamericani allacciati da un curioso destino, avvolti da un alone di mistero, di irregolarità, di marginalità. Soprattutto allacciati dalla vicenda della loro uscita dalle scene più o meno nello stesso periodo, alla fine degli anni ’60.

Uscita per modo di dire: erano letteralmente scomparsi nel nulla. Uno ritrovato nel 2008 mentre da homeless suonava nei parchi di New York, l’altro dato per morto e ritrovato nel 2002 a Los Angeles in una misera stanza d’hotel, occupato in lavoretti saltuari e nella scrittura a mano di poesie. Come leggenda vuole sono morti di Covid-19 lo stesso giorno, il 17 aprile scorso. In realtà uno, Giuseppi Logan, è deceduto in una casa di riposo il 17, l’altro, Henry Grimes, il 15 in ospedale. Comunque la morte causa virus li ha raggiunti insieme. Avevano entrambi 84 anni.

STORIE DIVERSE, al di là di un comune lungo intermezzo da fantasmi. Quando riappaiono, uno, Logan, si esibisce per un paio d’anni, registra tre dischi e si riacquatta di nuovo nei parchi, in particolare nel suo preferito Tompkins Square Park. L’altro, Grimes, riprende la carriera alla grande, suona in tutto il mondo e conquista un relativo benessere. Logan, ecco un «caso» nella storia delle avanguardie. Sax alto, oboe indiano, clarinetto basso i suoi strumenti. Diventa musicista di culto, arrivando un po’ dal niente, nel 1964 e un anno dopo con due Lp dell’etichetta Esp che inebriano e sconvolgono: The Giuseppi Logan Quartet e More. Ha partner splendidi come il pianista Don Pullen e il percussionista Milford Graves.

Logan è un «radicale» nato. Il suo idioma tiene conto di Charlie Parker ma solo per quei frammenti di Lover Man dove Bird esce dai binari armonici, vacilla un po’, cerca stranito una strada e la trova sia pure con qualche felice sgrammaticatura. Logan fa suo il free, ne redige anzi un manifesto personale, ma è eretico fino in fondo nel lasciare spazi a ingenue melodie, a curve sensuose delle frasi. Nel mezzo di sequenze ossessive e non poco angosciose.

La precarietà – che sarà, all’estremo, il suo modo di vita dopo che, per droga e disagio mentale, abbandonerà il mestiere e diventerà un «invisibile» – è la sua poetica. La sua musica ci arriva come fatta da un vagabondo che legge ogni sera Beckett e Ginsberg. Musica intransigente ma senza dottrina. Nessuna scuola, nemmeno strumentale, nel laboratorio di Logan, che ha una tecnica poverissima.

LA TECNICA di Grimes, invece, è perfetta. Ha studiato alla Juilliard School. Il suo strumento è il contrabbasso. Solo nell’ultimo periodo suona anche il violino. L’ultimo periodo che inizia dopo l’insperato ritorno alla musica, lui povero in canna, con un contrabbasso donatogli da William Parker, un collega che è un maestro nella nuova avanguardia newyorchese del ventunesimo secolo come Grimes lo è stato nella prima avanguardia free. Negli anni ’50 le sue collaborazioni seguono un tranquillo itinerario evolutivo.

Lo troviamo col «morbido» e «moderato» Gerry Mulligan, ad esempio in Reunion with Chet Baker (’57), e appena dopo con un Sonny Rollins in piena maturità post-hard bop, ad esempio in StThomas (live in trio a Stoccolma, ’59).

MA SONO gli anni ’60 con l’esplosione della new thing quelli che vedono Grimes compiere un definitivo salto innovativo. Guida un trio «estremista» in The Call (’65), suona con Albert Ayler in sessioni fondamentali come Spirits Rejoice, partecipa alla elaborazione di capolavori firmati Cecil Taylor come Conquistador e Unit Structures, collabora con Don Cherry e Archie Shepp. Ha una sonorità grave, un fraseggiare fitto nei contrappunti di base, una nervosa concezione dell’informale negli assoli con l’archetto.

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