La scuola di Domenico Starnone (Einaudi, pp. 488, euro 15) raccoglie diversi testi che l’autore ha scritto negli anni raccontando l’esperienza dell’insegnamento, descrivendo con puntualità e ironia la scuola italiana, in particolare qui si ritrovano: «Ex cattedra»; «Fuori registro»; «Sottobanco»; «Solo se interrogato». Nei primi tre colpisce che Starnone riesca per circa trecento pagine a mantenere viva l’attenzione su un ambito, come quello scolastico, che può non interessare i non addetti ai lavori.

Nei testi raccolti in questo volume non si mette mai piede fuori dai diversi edifici scolastici in cui il protagonista insegna, che non sono connotati in modo da essere diversi gli uni dagli altri, riconoscibili. Solo a volte seguiamo lo sguardo della voce narrante, il professor Starnone, nel mondo esterno, per esempio quando nota la mutazione di Romina Romualdi, che prima di uscire si cambia per incontrare un baldo giovane, togliendosi di dosso, nel momento in cui si accinge a lasciare la scuola, tutta la sua mestizia, per rilucere finalmente libera. Starnone la osserva perché anche lui vorrebbe scappare, braccato com’è da colleghi, applicati di segreteria e dal preside che hanno scoperto che negli ultimi dodici anni non ha mai redatto un piano di lavoro: «il piano, maledetto, il piano».

CHI INSEGNA riconosce bene l’angoscia di questi doveri, delle consegne dell’inizio e della fine dell’anno scolastico, ammantate di un’importanza capitale e che poi vengono rispettate quasi sempre scopiazzando qua e là da documenti di cui forse l’originale, come ipotizza la professoressa Bellora: «risalendo di generazione in generazione, potrebbe essere stata opera di Pascoli o Carducci o giù di lì».

I personaggi e le personagge di questa raccolta, colleghi e studenti, sono la specie che abita gli edifici scolastici e che popola dunque il libro. I loro ruoli sono talmente fissi che l’effetto è quello di una sorta di commedia dell’arte: l’insegnante di religione che cerca di catechizzare i colleghi e fa la spia al preside, il quale a sua volta ripete ossessivamente di «non fare poesia», gli studenti ribelli che poi quando diventano adulti vanno a trovare i loro insegnanti, perché una volta che si mette piede fuori da scuola e si entra nel mondo reale anche la memoria si altera. Nel testo, al di là della riconosciuta e consolidata bravura dell’autore, è interessante leggere la descrizione perfetta di quell’anomalia costitutiva del ruolo dell’insegnante, cioè invecchiare mentre nei decenni fra i banchi si alterna una gioventù eterna: «mi sento mutilato. Centinaia di teste si sono portate via spezzoni di me, in ventidue anni».

L’ULTIMO TESTO della raccolta, «Solo se interrogato», si distingue, invece, per ragioni diverse: in esse Starnone raccoglie delle riflessioni, anche a partire da domande, vere o presunte, che ha fatto ai suoi colleghi, immaginari o reali, poco importa. Vi si trova allora l’argomentazione precisa e profonda di come a scuola sia bandito lo studio, inteso come conoscenza, comprensione, coltivazione del dubbio. La scuola che descrive qui Starnone e che esiste tuttora nel mondo reale: «è un luogo senza studio. Il suo spazio, come imparammo alla fine degli anni Sessanta, è attrezzato sostanzialmente per il controllo sociale». Senza mai nemmeno sfiorare la vena della polemica, Starnone chiarisce come nelle aule alle studentesse e agli studenti viene chiesto di «eseguire», non di essere loro stessi, di vivere nel loro tempo, di fare delle vere domande, giammai di provare a essere felici.