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L’inquietante ricerca di un’endogamia perfetta

L’inquietante ricerca di un’endogamia perfettaUn’immagine tratta dal sito Shutterstock

Narrativa Per Sur «Una vita prima di questa» di Fernanda Trías. L’opera prima della scrittrice uruguayana, realizzata quando aveva solo 22 anni

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 21 febbraio 2024

Fernanda Trías, uruguayana vicina ai cinquant’anni (è nata a Montevideo nel 1976), è senza dubbio tra le più interessanti scrittrici latinoamericane di questi anni, e anche tra le più «perturbanti», come dimostra il quarto e (per adesso) ultimo dei suoi romanzi, Melma rosa, edito da Sur nel 2020, che le è valso il premio Sor Juana de la Cruz: una complessa distopia elaborata ben prima che il Covid imponesse isolamento e clausura, ma singolarmente profetica. Sur manda ora in libreria Una vita prima di questa (pp. 139, euro 16, la traduzione è di Massimiliano Bonatto), opera prima scritta a ventidue anni: un testo audace, che attirò l’attenzione della critica e in cui si percepisce l’influenza di Mario Levrero e del suo Il discorso vuoto (Calabuig, 2018), o della Diamela Eltit di El cuarto mundo (1988), senza che l’originalità e il timbro personale caratteristici di Trías, già evidentissimi, ne vengano minimamente intaccati.

IL ROMANZO si può considerare un «biglietto da visita» che annuncia i temi e lo stile delle opere future di un’autrice fuori dal comune, ma a stupire, nonostante siano trascorsi venticinque anni dalla prima edizione in lingua originale, è soprattutto la sua sintonia con il presente, di cui sembra dilatare allarmanti fobie, pregiudizi e deliri. La voce narrante è quella di Clara, giovane donna di cui non sappiamo quasi nulla (né l’aspetto, né l’età, né quale vita conducesse «prima di questa»), se non che, dopo la morte della madre in un incidente stradale, il lutto ha confinato il padre in una depressione profonda, di cui la figlia ha subito approfittato per imporgli una prigionia progressiva e implacabile e guidarlo verso un incesto da sempre fantasticato, da cui nascerà la bambina Flor.

CON LE PORTE CHIUSE a chiave e le finestre sbarrate, il piccolo appartamento diventa ben presto una fortezza soffocante, sudicia e buia in cui nessuno può penetrare, perché Clara teme i vicini, la polizia, la donna che le porta la spesa e le ha fatto da levatrice (un’immigrata dall’Europa dell’est che racconta terribili storie di guerra e non a caso assume rapidamente i connotati di un’alterità oscura e pericolosa), e infine si nega anche il conforto delle rare incursioni sulla terrazza condominiale, luogo sicuro da dove può contemplare un mondo così remoto da apparire privo di rischi.

Il tentativo di realizzare un’endogamia perfetta, di chiudere ermeticamente un cerchio in cui è lei soltanto a disporre del corpo paterno, rovesciando le consuete forme del potere, comporta per Clara la rinuncia a ogni contatto o legame, perché al di là della porta sente in agguato un esterno minacciosamente «normale», pronto a tessere complotti contro di lei e la sua eterodossa famigliola. Vivere a ogni costo e contro ogni regola il proprio desiderio (è ovvio pensare alle freudiane «fantasie primarie») significa, però, pagare un prezzo imprevedibile, che per la protagonista è lo scivolamento nella follia e la trasformazione in una giovane Medea, spinta quasi suo malgrado verso una conclusione estrema.

Il romanzo inizia e si conclude nel medesimo istante, perché la protagonista comincia il suo racconto quando ogni cosa è già accaduta e all’orizzonte non c’è un futuro, ma solo una fine imminente, culmine di una catena di eventi spiegati solo in parte, tra deliberati silenzi, allusioni a un contesto riconoscibile (per esempio la scomparsa degli alberi cittadini, che rimanda a una Montevideo dove la dittatura militare li fece abbattere «per ragioni di sicurezza»), e infine simboli trasparenti, come il canarino in gabbia (quasi un alter ego del padre prigioniero), o la terrazza, che rappresenta un mondo più vasto e libero cui è necessario dire addio.

L’ATTENTO USO del linguaggio, limpido quanto la vicenda è tenebrosa, colmo di sottili sfumature e attraversato da improvvisi lampi lirici, dà vita a una suggestiva scrittura per immagini in cui tutto (oggetti, animali, luci, suoni, odori) prende vita; nei brevi capitoli disseminati di piccole scene dell’infanzia, inoltre, compare a tratti la madre-rivale, che la figlia tenterà allo stesso tempo di impersonare e cancellare, indossandone gli abiti e bruciandone le foto e gli oggetti. Anche della memoria si deve fare a meno, se come Clara, ci si sforza inutilmente di vivere in un tempo immobile, che Trías ha racchiuso nella sfera perfetta di un romanzo ipnotico.

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