Lino Tagliapietra, con la magia del vetro
Incontro Il soffio che crea sculture ipnotiche: «L’origine del viaggio», a cura della sua Fondazione con Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca’ Rezzonico, fino al 25 settembre
Incontro Il soffio che crea sculture ipnotiche: «L’origine del viaggio», a cura della sua Fondazione con Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca’ Rezzonico, fino al 25 settembre
A una inedita selezione di lavori di Lino Tagliapietra – definito da alcuni «l’ultimo grande soffiatore di vetro al mondo» – è dedicata Lino Tagliapietra l’origine del viaggio (a cura della sua Fondazione con Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca’ Rezzonico, fino al 25 settembre) raffinata e bella mostra appena aperta nelle sale di Ca’ Rezzonico. Molti i pezzi fondanti della sua produzione come quelli della serie Dinosaur dai colli allungatissimi e quelli della serie Hopi (tribù del New Mexico cui appartiene uno dei suoi assistenti durante il periodo americano) o i Niomea, fatti di vetro soffiato con canne a reticello all’interno e a puntini all’esterno, ma anche creazioni altamente innovative e sperimentali come i grandi pannelli in vetro fra Rothko e Scarpa oppure infine i Dubai: soffiati, tagliati, molati e incisi.
La tecnica antica e tradizionale che si incontra con la sperimentazione, l’intelligenza curiosa del viaggiatore che ancora oggi, a 89 anni, dice di avere tantissime idee che lo tengono sveglio di notte e che quando gli viene chiesto quale possa essere il suo pezzo più bello, risponde che il più bello è certo quello che farà domani. Lo incontriamo mentre, con passo lieve, entra a Murano nella ex-fabbrica ora sede della sua Fondazione. Con negli occhi ancora Mauro Codussi e la facciata di San Michele in Isola, capolavoro del rinascimento veneziano, viene spontaneo chiedergli dei suoi riferimenti artistici. «Certo questo pezzo di Rinascimento, andando o tornando da Murano, l’ho sempre avuto davanti agli occhi – dice Tagliapietra –. Ho però iniziato a lavorare prestissimo, a undici anni sono entrato in fabbrica da Archimede Seguso, ero il suo garzonetto e lì ho imparato tanto. Mia madre era una merlettaia di Burano ma qui a Murano i merletti sono quelli soffiati nel vetro di Archimede Seguso. Ne imparai la tecnica per infine applicarla a lavori diversi, altrimenti mi annoiavo».
E cosa accadde poi?
Con Seguso mi ero fermato, ero diventato il suo assistente e allora cambiai e andai da Galliano Ferro (Vetreria Artistica fondata nel 1955). Lì è stato interessante e difficile, conobbi tecniche che erano più tradizionali, più legate al novecento e io non vi ero preparato. Fui sul punto di essere tagliato fuori ma Il maestro mi disse che ce la dovevo fare; iniziai ad andare due ore prima la mattina e lavoravo di notte e quello è stato il momento di svolta, credo semplicemente perché avevo qualcuno che credeva molto in me. Galliano Ferro era eccezionale, era una persona piccola, paziente e religiosa e prima di lavorare mi dava sempre un santino. Ho un bellissimo ricordo.
Al centro dell’esposizione è visibile un video girato durante uno dei suoi tanti periodi americani, nel Museum of Glass a Tacoma, nel nord dello stato di Washington. Lì sembra che coi suoi assistenti siate immersi in una specie di danza nella quale i movimenti di ciascuno si svolgono in una sincronia grazie alla quale l’opera prende lentamente la sua forma…
In Usa sono stato ripetutamente, a partire dal 1979, quando mi chiamarono la prima volta. Da allora ho insegnato molto in America, in particolare presso la Pilchuck Glass School a nord di Seattle. Ho lì dei grandissimi amici come Dale Chihuly e Dan Daley, a loro volta egregi artisti del vetro. Nel video uno degli assistenti gira molto lentamente la canna, la sua rotazione ha una velocità e un verso preciso che mi consentono di modellare il vetro e realizzare curve e allungamenti. Se così non fosse sarebbe impossibile creare. Si vede, sempre nel filmato, come, quasi nello stesso momento, intervenga un’altra assistente – una ragazza – che con un getto d’aria raffredda una parte della scultura. E sì, siamo tutti sincronizzati.
Fra le opere in mostra a Ca’ Rezzonico, nel cosiddetto Portego dei dipinti, accanto al cromatismo cupo della gigantesca tela con «Morte di Dario» di Gianbattista Piazzetta (1746), c’è il pannello – alto quasi due metri – chiamato «Giuditta». Nata dalla fusione di murrine e graniglia di vetro e realizzato nel 2012, è quasi una pala d’altare laica. Un lato è lucidissimo mentre l’altro, il verso, è opaco e poco trasparente…
La superficie grezza è più viva, un po’ come nelle sculture. L’ideale sarebbe stato poterla vedere da entrambi i lati. Dovevano spostarla in avanti e invece… Mi dicono che verso le cinque, le sei, col sole del tardo pomeriggio, c’è un bel pulviscolo e il colore esplode comunque.
A proposito di colori, ne ha sicuramente di preferiti, per esempio quando vuole abbinarli. È così?
Adoro l’arancio mescolato col turchese, adoro il blu, il blu con il rosso o anche due tipi di blu o di rosso messi assieme. Il rosso è un colore incredibile ed è sempre ingannevole: se devi fare dei multipli, per esempio dieci vasi rossi, non verranno mai uguali. Se ne fai quindici oggi, quelli di domani non saranno mai identici. Venini è quello che nel colore ha dato la svolta al vetro muranese. Anche se ci sono stato per poco, da Venini, in quel breve tempo la mia testa è cambiata e sono passato da una mentalità da «inizio novecento» alla modernità. Non fu facile. Ogni vetreria ha il suo stile e una sua manualità tipica e le cose che escono da Venini hanno un imprinting precisissimo. In un bicchiere il delfino è quello e soltanto quello. È come se fosse una firma.
Se lei potesse pensare a dei riferimenti artistici oltre a quel che vedeva ogni giorno di Venezia fin da bambino?
Ho amato molto Campigli, Boldrini, Burri, Fontana ed Henry Moore. Un legame forte mi lega a Luigi Spacal, artista sloveno, premio della Bagnara alla Biennale nel 1972. Allora gli chiesi se potevo usare il suo catalogo per fare degli oggetti. Poi Mondrian e, certo, vedere Pollock al Moma e al Metropolitan è stato fondamentale. Sono sempre stato attratto dall’arte giapponese e in particolare da quella coreana, forte, dura, bellissima. E poi certo l’arte cinese, con quei piccoli segni neri».
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